Vol. 13 – STANISLAO FARRI – Autore dell’Anno 1998
- a cura di Giorgio Tani;
- 120 foto in bianco e nero
- introduzione di Giorgio Tani;
- interventi di: Giorgio Tani, Massimo Mussini, Giorgio Rigon, Silvano Bicocchi, a Vittorio Rosati
- cm. 22 x 23 – pagg. 117 – 1998
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Biografia
Nasce a Bibbiano (RE) nel 1924, dal padre Giuseppe artigiano calzolaio e la madre Luigia Casamatti contadina.
Dopo la scuola lavora 6 anni col padre, a 16 anni è apprendista tipografo, attività che conduce fino al 1955 quando inizia il mestiere di fotografo professionista.
Nell’attività professionale si occupa di riproduzione d’opere d’arte e di pubblicità industriale.
Nella lunga attività fotoamatoriale, dal 1951, partecipa assiduamente ai concorsi nazionali ed internazionali riscuotendo prestigiosi riconoscimenti. La FIAF gli conferisce le onorificenze AFIAP (1960), MFI (1988), EFIAP (1996).
Le sue fotografie oltre agli archivi FIAF sono conservate presso importanti collezioni ed archivi, tra i quali: Civici Musei di R. E., Biblioteca Panizzi di R. E., CSAC dell’Università di Parma, Bibliotheque National di Parigi, Musée N. Niepce di Chalon sur Saone, al Museo della Fotografia di Brescia, Musée Reattu Arles, Museo C.S.Vilaseca di Reus e Collezione Charles-Henri Favrod.
Una fotografia dalla vita libera.
Un assolato pomeriggio d’aprile del 1946, in un borgo sito sulle prime colline adiacenti a Reggio Emilia , un giovane ventiduenne costretto a letto da una malattia guarda fuori dalla finestra, nello splendore della luce diffusa, gli alberi, le nubi agitati dal vento in un cielo terso. Sotto le coperte, dal cuscino, questa visione si fa così intensa fino a spingerlo fuori dal letto, per andare sul prato con la sua fotocamera a prendere la fotografia di questo momento per lui straordinario.
Era terminata la guerra da un anno. Il giovane mosso da questa urgenza espressiva è Stanislao Farri, e tuttora continua a prendere le fotografie che la sua lettura della realtà gli rivela.
Il conflitto bellico aveva duramente ferito queste generazioni di giovani nel corpo e nello spirito. Lui in particolare che per carattere è antieroe del tempo di guerra e un grande combattente del tempo di pace.
Farri è un fotografo autodidatta che ha formato il suo innato talento alla scuola della vita, nella quale si impara facendo o meglio sbagliando, come lui afferma, e si vive nella costante tensione di chi non avendo studiato si sente insufficiente di fronte a chi ha una cultura accademica, ma in virtù di questo pungolo riesce ad esprimere una creatività rara da riscontrare in chi possiede questa cultura.
Per comprendere il linguaggio, il processo creativo e quindi l’opera di un autore di questa natura è necessario conoscerne i tratti più significativi della vita che hanno prodotto l’uomo e quindi il fotografo.
L’infanzia e la scuola
Nasce a Bibbiano, paesino sito sulle prime colline dell’appennino reggiano a pochi chilometri da Reggio Emilia, nel 1924 dal padre Giuseppe e dalla madre Luigia Casamatti.
Il padre era artigiano calzolaio e la madre contadina, gente alle prese con una vita dura che pur segnando i corpi non ha mai intaccato in loro la dignità e fierezza della propria identità umana.
Farri ha vissuto, con i propri genitori, un rapporto caratterizzato da una grande intensità affettiva e rispetto reciproco in tutti i momenti della vita; rapporto che ancor oggi in lui si manifesta con dei profondi sentimenti di nostalgia ed affetto.
Egli nasce in un mondo dove la miseria condiziona l’esistenza. Questa violenza, che toglie ogni possibilità di crescita umana e umilia la condizione esistenziale, ha profondamente inciso nel suo carattere spingendolo a combattere ogni forma coercitiva dello sviluppo naturale della creatività umana.
I primi 5 anni li vive attorno alla sua casa, incastonata in un borgo rurale dove la vita del lavoro dei campi si alterna a quella dei lavori artigianali.
Dal cortile di casa si accede a una strada bianca, che in leggera discesa subito incontra la ferrovia per poi infilarsi nei prati, accompagnando le donne al torrente dove si fa bucato, e infine scivola col dolce ondulare delle colline verso il fiume Enza.
Bibbiano è un paesino posto su un leggero altipiano dal quale si può ammirare il vicino Appennino e nelle giornate senza foschie le Alpi. La natura con le sue colline, i filari di alberi, i torrenti ed il fiume d’acqua purissima, si offre con paesaggi incantevoli. In questi luoghi adiacenti al fiume ed ai torrenti furono fiorenti diverse colonie etrusche e romane.
Un ambiente quindi dove la natura e la storia si manifestano con segni forti ed affascinanti nel loro mistero. In un animo sensibile come quello di Farri queste realtà, presenti e nascoste, sviluppano quelle forti capacità intuitive che muovono il suo bisogno di cercare per rivelare e far comprendere i valori che egli sente profondamente.
Frequenta le scuole elementari di Bibbiano, che raggiunge a piedi col sacco a tracolla confezionato dalla madre, utilizzando l’umile tela grezza di iuta aggraziata dal ricamo di un bel fiore.
Gli anni scolastici sono il momento fondamentale della sua formazione culturale, la scoperta delle conoscenze che non appartengono al suo mondo domestico gli aprono gli occhi sulla vastità del sapere umano. È anche l’occasione di esperienze fuori dal proprio paese come le visite al Museo Civico di Reggio Emilia ricco di reperti storici e naturalistici.
Il lavoro, la guerra
Terminate le scuole elementari esprime il desiderio di continuare gli studi nell’indirizzo linguistico. Desidera studiare le lingue straniere per comunicare con tutte le genti. Desiderio molto originale, in un epoca dove il salto culturale era il passaggio dalla lingua dialettale a quella italiana.
Le condizioni economiche della famiglia, non gli permettono di continuare gli studi ed il fanciullo Stanislao inizia la scuola della bottega del padre ove resta fino all’età di 16 anni. In questa esperienza egli impara la pazienza artigiana che è necessaria a trasformare la materia prima. Conosce il piacere dell’oggetto finito, fatto con le proprie mani ed elaborato al giusto grado di finitura. L’esperienza termina un giorno in cui un boaro porta a far riparare gli zoccoli da lavoro senza pulirli dal letame; il giovane Farri getta gli zoccoli fuori dalla finestra e, slacciandosi il grembiule di cuoio, annuncia a suo padre che non continuerà questo mestiere.
Egli è rispettato in questa sua decisione ed aiutato a trovare un nuovo lavoro, alla tipografia Notari di Reggio Emilia.
Allora il mestiere del tipografo aveva una dignità culturale superiore ad altri. In questo nuovo mondo, egli impara la composizione grafica della stampa con inchiostro nero. È ora che acquista la sua prima fotocamera. In quei tempi frequenta il fotografo Vaiani di Reggio, il quale gli insegna le tecniche di sviluppo dei negativi e la loro stampa. La sua camera oscura è costituita da il torchietto di stampa a contatto che espone dentro ad un bromografo, fatto in casa con una scatola d’imballaggio e qualche lampadina, mentre lo sviluppo ed il fissaggio sono contenuti in due piatti rotti, che ormai non servono più in casa.
Acquista i primi libri fotografici reperibili nelle librerie cittadine che ancora conserva: “Fotografia” curato da E.F. Scopinich, Ed. DOMUS, “Fotocronache” di Bruno Munari, Ed. DOMUS ed il manuale tecnico “IL FOTOLIBRO” si S. GUIDA, Ed. HOEPLI. Particolare valenza assume il libro di B.Munari, perché eleva la fotografia alla dignità di linguaggio sostenendo che “la parola è un surrogato dell’immagine”. Per lui che non aveva potuto acquisire l’espressione letteraria, si apriva una grande opportunità di crescita culturale ed espressiva.
Quando scopre che nella sua fotocamera trafila la luce che vela il negativo, scatta in lui la ribellione a questa miseria che non lo lascia esprimere, e sbatte contro il muro la sua macchina di legno. Nel 1943 partecipa alla sua prima mostra collettiva a Reggio Emilia.
Rapidamente giunge il periodo tremendo della guerra, ed egli attraversa il calvario della sua generazione conoscendo nuove terribili esperienze: l’oppressione straniera, la paura, il sangue, l’odio, il rischio, la disperazione, la scomparsa degli amici d’infanzia, ma anche la solidarietà umana che in diversi casi gli salva la vita.
Da questo periodo ne esce ammalato, ma ancora vivo!
La fotografia, l’archeologia
Scoppia la pace, c’è l’Italia da ricostruire. Manca il lavoro e Farri insieme ad altri colleghi fonda la Cooperativa Operai Tipografi nella quale egli impara le leggi cromatiche della stampa a colori.
Dal 1951 riprende a partecipare a mostre e concorsi. Le prime soddisfazioni l’incoraggiarono nel 1955 a lasciare lo stipendio sicuro e affrontare l’esperienza del fotografo professionista, prima insieme con altri due soci poi preferisce lavorare da solo, raggiungendo così la sua condizione ideale che non muterà più.
Passa i primi sette anni d’attività, in un regime di lavoro stressante che non gli concede nemmeno il riposo domenicale. Naturalmente ogni eccesso presenta il suo conto, ed egli cade in esaurimento nervoso che curerà riscoprendo le sue vocazioni originarie: l’archeologia e la fotografia d’espressione della propria poetica senza il condizionamento del rapporto con la committenza.
Nel 1968 è tra i fondatori della Società Reggiana d’Archeologia.
Partecipa a scavi che gli permettono di contribuire a trovare importanti reperti di insediamenti etruschi e romani della provincia reggiana, oggi esposti nel Museo Civico di Reggio Emilia.
L’archeologia e la fotografia, in lui, condividono la stessa necessità interiore di cercare, la soddisfazione del trovare, la pienezza dello scoprire che comunicata diventa il sapere di tutti.
La ragione che impone ad un uomo di cercare è insondabile, visto che non si riscontra con eguale misura in ognuno, mentre è comprensibile la soddisfazione del trovare e dello scoprire.
Farri è un ricercatore che per prima cosa deve soddisfare se stesso; egli si sente esistere quando cerca e viceversa si sente mortificato quando non avverte questa spinta. La ricerca in sé non garantisce di trovare e per questo ha la stessa natura dell’amore, perché sa dare valore, sa donarsi gratuitamente anche a ciò che ancora nessuno apprezza.
Le qualità taumaturgiche della fotografia nella cura dell’animo ferito, possono essere molto efficaci. Egli narra che furono necessari quattro anni per uscire dal suo esaurimento nervoso, ad ogni scatto sentiva staccarsi dalla pelle la cappa che lo imprigionava. Quanto è misterioso nella vita di ogni uomo questa spinta che gli impone, se vuole la pace con se stesso, di realizzarsi nella propria vocazione.
Il fotografo professionista
Farri fotografo professionista si occupa di riproduzione d’opere d’arte, di architettura e di pubblicità.
Ognuno di questi ambienti lo arricchisce. Dalla pittura e la scultura impara il linguaggio delle luci e la resa espressiva della visione.
Nella foto d’architettura trova una grande palestra della visione prospettica, nella fotografia pubblicitaria matura la capacità di raggiungere il simbolo.
Farri fotografo professionista è animato da un grande spirito d’iniziativa; intende il suo lavoro non come la vendita di una tecnica fotografica ma l’ideazione di un’immagine che risolve il problema della rappresentazione fotografica posto dalla committenza.
Mentre la fotografia pubblicitaria si gioca con l’invenzione del simbolo e la novità della tecnica fotografica, nella fotografia di riproduzione delle opere d’arte Farri è impegnato a comprendere l’azione espressiva degli artisti e quindi riprodurre con autenticità l’opera rispettando la visione del suo autore.
Da qui la necessità di essere sempre aggiornato sulle tecniche di trattamento e stampa. Studia i pochi manuali in commercio e le istruzioni delle case produttrici, per poi sperimentare fino al successo in giornate spese in prove su prove in camera oscura.
Egli è attento all’evoluzione del gusto e della fotografia d’autore che segue attraverso i libri, riviste, mostre. Guardando le sue fotografie in riferimento alle epoche della loro realizzazione, comprendiamo quanto egli abbia saputo imparare dagli altri fotografi e parimenti sia riuscito a realizzare una fotografia originale ed autenticamente sua che non imita nessuno.
Farri è imprenditore di se stesso. Un mese si presentava scarso di impegni? Lui reagisce mettendo nelle due tasche, poste a cavallo della ruota posteriore, del suo motorino la macchina 13×18 col cavalletto e parte per le dolomiti. Ritorna con immagini di paesaggio a colori che poi venderà a case editrici milanesi.
Nell’attività professionale, da buon artigiano, conduce in prima persona ogni funzione seguendo il lavoro dall’ideazione alla stampa. Questa condizione di grande autonomia forma in lui una dimensione di vita libera, conosciuta da pochi, che permette di agire senza quei compromessi che invece impone l’attività collegiale.
Certi talenti possono esprimersi solo in questo particolare ambiente dove la libertà di manifestarsi è totale, e si guadagna la stima della collettività attraverso la dimostrazione delle opere, senza dover giustificare a nessuno i propri progetti le proprie scelte creative; nell’intrigo delle parole si reprimono le genialità che possono essere comprese solo a posteriori nei fatti.
Il fotoamatore
Farri fotoamatore è il fotografo professionista che lavora per se.
Il suo linguaggio ora, conoscendone il vissuto, comprendiamo che è un qualcosa di molto complesso, per il bagaglio di conoscenze tecniche e artistiche che egli ha assimilato nella vita e ora giocano con il suo talento naturale.
Dal 1949 segue le diverse edizioni delle mostre, con catalogo denominate “Esposizione Ann
uale della Tecnica Fotografica” organizzata dall’Associazione Fotografi Professionisti di Bologna. In quegli anni oltre ad altri autori resta particolarmente colpito dalle fotografie di Pietro Donzelli, Otto Steiner, Mario Finazzi e Luigi Veronesi.
Nel 1957 visita la Prima Mostra Internazionale Biennale di Fotografia organizzata dal Circolo Fotografico “La Gondola” e scopre le fotografie dei reporter dell’agenzia “Magnum” come Robert Capa, David Seymour, Werner Bischof, Henry Cartier Bresson e di “VOUGE” come C. Beaton, R. Doisneau, Horst, Klein, Penn e i fotografi italiani come Paolo Monti, Mario De Biasi, Federico Vender, Fulvio Roiter.
Il suo bagaglio di conoscenze sulla fotografia amatoriale si dilata continuamente con i cataloghi dei concorsi, scrupolosamente conservati, e le fotografie delle riviste “Ferrania”, “Fotografia”, “Popular Photografphy Italiana” e dei circoli fotografici “La Bussola”, il “Circolo Fotografico Milanese”, “La Gondola”, “L’Ottagono” ed il “MISA” che erano il riferimento per tutti i fotoamatori italiani degli anni 40’ e ‘50. Importante fu l’attività espositiva ed editoriale della “Unione Fotografica” di Milano diretta da Pietro Donzelli che permise al mondo fotoamatoriale italiano di conoscere la fotografia americana ed europea. Il realismo americano della straordinaria esperienza della Farm Security Administration, confermò in Farri la validità del suo interesse per le ricerche sul territorio Reggiano. Tematica questa esaltata anche con la risonanza del libro fotografico “Un Paese” di Paul Strand nel 1955 a Luzzara con Cesare Zavattini.
Nel 1960 è tra i soci fondatori, con Vittorino Rosati ed altri amici, del circolo reggiano “Il Soffietto”. La sua partecipazione ai concorsi è stata sempre stimolante per la novità delle immagini, ed anche lui, come ogni fotoamatore, ha subito delusioni e goduto di grandi soddisfazioni come: nel 1959 e 1960 quando vedeva respingersi fotografie elaborate che poi venivano premiate nel 1961, o alle immagini sportive di atletica realizzate con l’effetto di “mosso” che invece ebbero un immediato successo in Italia ed all’estero.
La tecnica
La tecnica la apprende veramente dall’A alla Z, dal torchietto per la stampa a contatto esposto in un bromografo, al negativo all’infrarosso. Impiega il grande, il medio, ed il formato 35 mm; spazia dalle stampe tendenti a riprodurre l’analogo della realtà a quelle elaborate, fino a quelle capaci di rappresentare una realtà soggettiva che è l’equivalente di quanto egli ha sentito.
E’ un fotografo maturo che conosce perfettamente, già nella visualizzazione mentale al momento dello scatto, la differenza tra la realtà e il risultato trasfigurante della rappresentazione fotografica che egli vuole raggiungere. Da qui la conseguente scelta: dei materiali e le attrezzature di ripresa che dal formato del negativo vanno all’ottica impiegata, alla pellicola, poi all’impiego dei filtri che giocano tra i colori della realtà e le caratteristiche della pellicola stessa, ed infine le modalità del trattamento di sviluppo e stampa in camera oscura.
La sua camera oscura è un ben attrezzato laboratorio artigiano; per lui è il luogo della scoperta di ciò che ha trovato nello scatto. Essa è, nel contempo, un luogo faticoso e gratificante, che con il giusto tono della luce di sicurezza porta il momento creativo alla massima concentrazione e straniamento.
La poetica
In generale la sua poetica risente dell’interiorizzazione dei segni naturali e storici del ambiente fantastico in cui è nato, per continuare nel gusto estetico del tipografo, l’organizzazione dei valori visuali della rappresentazione artistica appresa della pittura, la scultura e l’architettura antica e moderna. Infine possiede la capacità di comunicare fulmineamente, tipica delle simbologie della pubblicità commerciale.
La sua fotografia ci dimostra quanto egli abbia superato i condizionamenti della vita, riuscendo a raggiungere dei risultati espressivi invidiabili ed a rivelarci quelle cose nascoste che sono visibili solo a chi é sapiente.
Il risultato che persegue è comunque sempre la comunicazione della sua Visione Onesta dei segni della vita.
Sente profondamente il valore storico delle persone e delle cose, dilata continuamente nel passato e nel futuro la sua attenzione e la sua coscienza. Ciò si manifesta quando misticamente osserva un reperto dell’epoca etrusca o quando si parla della fotografia digitale e lui afferma “la fotografia è agli inizi”.
La scala dei valori che Farri attribuisce alla fotografia pone al primo posto quella documentaria, sviluppando la poetica neorealista con una forte influenza del realismo americano. Poi viene la fotografia di ricerca estetica ove dal più rigoroso formalismo geometrico, sente la necessità di spingersi verso l’astrattismo.
Egli ci rivela a volte con ironia, o con tragicità la condizione umana e il dramma dell’esistenza. Parimenti ci mostra la bellezza nelle sue forme solenni, complesse, raffinate, sublimate; partendo da soggetti che non hanno particolari qualità estetiche rendendo “cosa altra “, quella fotografia normalmente presa dai luoghi ed i momenti umili del quotidiano.
L’immagine fotografica é per lui un segno forte, che lo coinvolge profondamente anche nella sua lettura, ad esempio: in un suo paesaggio padano, mentre sente tutta la vitalità del cielo, nel contempo, prova anche la malinconia e la speranza che è laggiù nella linea dell’orizzonte, dove terminano e rinascono il cielo e la terra, lasciandolo nell’emozione di intuire il mistero della vita.
Le opere
Le tematiche non risentono delle variazioni di tendenza delle mode del momento, egli segue il suo itinerario con coerenza dagli anni ‘40 ad oggi.
Si rapporta con ciò che lo attrae, sia questa la narrazione dell’arcaica civiltà contadina, o l’attenzione verso la società contemporanea oppure le sue ricerche estetiche che comunicano tutta la libertà espressiva che egli ha vissuto interiormente.
Nel 1976 il Comune di Reggio Emilia gli dedica una vasta personale con catalogo di tutte le opere esposte. Nel 1986 il CSAC dell’Università di Parma presieduto da G.C. Argan e diretto da A.C. Quintavalle gli dedica una mostra correlata dall’importante libro “Stanislao Farri, Fare Fotografia” con testo di Massimo Mussini.
Dilata la sua ricerca dal territorio della provincia reggiana e zone limitrofe, a New York, Parigi ed in varie regioni d’Italia passando per i santuari della fotografia nazionale come Burano, poi la Puglia fino alla recente passione per le rocce della Sardegna.
È così, da queste ricerche spontanee, che nascono i suoi libri. Egli non presenta un progetto da realizzare, da finanziare, perché troverebbe il condizionamento di un committente; ai possibili editori, mostra il prototipo del libro già realizzato come piace a lui, a questi ultimi non resta che giudicare il risultato raggiunto e decidere sull’investimento. Vengono stampati numerosi libri che spesso raggiungono un livello di narrazione così compiuta, da rivaleggiare con la letteratura.
Procede sul suo itinerario con coerenza, stupendo per l’originalità e il valore culturale delle opere.
In questo modo egli ha la più ampia libertà tematica e poetica perché i libri nascono da un suo progetto e si impongono per il loro alto valore fotografico unitamente a quello storico ed antropologico.
Il processo creativo
In generale il suo processo creativo è Cercare, Trovare, Scoprire e quindi, attraverso la comunicazione fotografica, contribuire al sapere di tutti.
Egli si lascia guidare dall’intuizione che gli suggerisce se in quella realtà c’è una fotografia da prendere ancor prima di trovarla. Allora la cerca con intensità, la vede e scatta secondo una visione spesso geniale, difficilmente imitabile.
Sa esprimersi in diversi linguaggi che adotta asseconda dei significati da comunicare. Da qui le diverse tecniche impiegate coerentemente ad esprimere le rispettive poetiche; ad esempio le elaborazioni sono impiegate solo se necessarie ad esprimere il soggetto, mai fini a se stesse.
A volte passano anni dallo scatto alla stampa, ed è proprio dagli scatti raccolti nel tempo che nasce il grande valore umanistico e storico della sua opera.
Dalle iniziali fotografie singole a tema, egli passa rapidamente all’organico racconto fotografico di tipo aperto , caratterizzato da immagini che non presentano mai cadute di tono e possono vivere anche se prese singolarmente. Dal linguaggio pittorico prima e dal suo esercizio fotografico poi, ha appreso che un racconto può essere sviluppato anche in una sola immagine. Dallo sviluppo dei racconti nascono le sue mostre e i suoi libri.
Nelle sue fotografie l’elemento centrale è la Visione, che diventa il segno di una lettura della realtà profondamente compiuta con sentimento e conoscenza.
Gli elementi visuali della realtà e le luci sono il suo lessico, col quale egli organizza, applicando i principi della composizione , le sue sintesi estetiche che crea al momento dello scatto e affina con cura artigiana in camera oscura.
La carta da stampa è scelta sempre in funzione della connotazione che egli vuole conferire all’immagine. Pertanto non accetta i compromessi che possono limitare la resa espressiva della fotografia.
La frequente presenza di segni umanistici, naturalistici, storici all’interno delle strutture formali conferiscono all’immagine un universo di forti significati.
La Luce che evidenzia la Materia è per lui un richiamo fortissimo alla fotografia che si esprime nella forza della forma, gli effetti di superficie e di volume magistralmente espressi col controllo della grana e dell’ampia gamma dei grigi che conferiscono la plasticità all’immagine.
Predilige il gioco compositivo di elementi multipli con l’enfatizzazione dei volumi, conducendo spesso ad un significato mediato, del segno fotografico, che nasce dalle relazioni dettate dalle proporzioni, dai piani prospettici e dai segni inseriti nell’immagine.
Le sue fotografie, spesso sono la metafora di una conoscenza cercata, che dalle parole di Heidegger è “l’approssimarsi della lontananza”; questa azione interiore in atto, del voler conoscere, dona grande energia agli scenari che mentre ci interrogano, sembrano svelarci l’esistenza di qualcosa che vive oltre il visibile.





















