Vol. 28 – Rinaldo Della Vite – Autore dell’Anno 2001
- a cura di Giorgio Tani;
- 99 foto in bianco e nero
- interventi di: Silvano Bicocchi, Cinzia Busi Thompson, Giorgio Tani
- cm. 22 x 23 – pagg. 120 – 2001
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La Democrazia della Visione.
La fotografia come narrazione e documentazione dell’umanità.
Ottobre 1962. Nella luce radente del primo sole del mattino, una piccola carovana di tre persone scende dalla città di Melfi per raggiungere la campagna. Due di loro sono contadini melfitani, l’altro, più rigido sul mulo, è un uomo del nord Italia; solo a sera ritorneranno a casa, dopo una giornata di lavoro nei boschi.
L’uomo del nord è Rinaldo Della Vite. Egli soggiorna in Basilicata tre settimane presso una famiglia condividendone la vita.
Vi giunge in seguito ad una di quelle amicizie vere, che nascono dall’esercizio della solidarietà umana. La sua famiglia aiuta quella del suo amico bergamasco Spartaco, deceduto improvvisamente a quarant’anni, lasciando sola la moglie Michelina, originaria di Melfi, e i tre figli che all’epoca erano ancora in tenera età.
In Basilicata è accolto con l’ospitalità riservata ai parenti, motivata dalla stima e dalla gratitudine. La gente, avverte in lui l’onestà, l’amicizia, l’ammirazione che lo animano nel vivere in mezzo a loro e si offre con fiducia alla sua fotocamera. Dalla narrazione fotografica di questa esperienza egli realizza un documento che oggi è prezioso alla memoria, alla scienza, al cuore.
Le origini e la formazione fotografica
Rinaldo Della Vite nasce nel 1926 a Torre Boldone, un paese sito alla periferia di Bergamo, dal padre Egidio e dalla madre Elisa Bordoni. Il padre lavora come impiegato, la madre si occupa della famiglia numerosa di sette figli. Terminati gli studi inizia a lavorare nel 1942 come impiegato presso l’INAM (Istituto Nazionale Assistenza Malattie), vi resterà fino al termine della sua carriera nel 1976.
Nel 1950 sposa Elide, la figlia dell’importante pittore, incisore, affreschista bergamasco, Giacomo Piccinini. Già negli anni ’40 in seguito alla frequentazione della casa – studio del pittore Piccinini viene a contatto con il fascino del processo creativo dell’arte pittorica. Egli osserva i disegni degli studi preparatori che l’artista prende dalla vita quotidiana del ceto popolare, cogliendo atteggiamenti formali, volti, luci, colori. Questi disegni gli rivelano le forme della realtà ed educano la sua visione ai principi della composizione. Il disegno dal vero ha in comune con la fotografia tutti gli elementi che portano alla decisione visiva con la quale si rappresenta il soggetto, come lo si può dedurre dalle considerazioni di Peter Galassi in “Prima della Fotografia”.
Egli si accosta alla fotografia in seguito all’amicizia con Mario Finazzi, Enrico Lattuada, Pepi Merisio, Alessandro Brembilla, e allo stimolo delle esposizioni del prestigioso Concorso Internazionale “Il Campanone d’Oro” di Bergamo. Come tanti fotoamatori di quell’epoca inizia apprendendo le tecniche di ripresa, sviluppo e stampa del bianco e nero che cura sempre personalmente in tutta la sua attività. Nel 1958 si iscrive alla “Associazione Fotografica Bergamasca” nella quale ricopre la funzione di segretario dal 1960 al 1972 anno del suo scioglimento. Nel 1973 fonda con alcuni amici il “Foto Club Bergamo” del quale sarà presidente e segretario fino al 1978, anno in cui il Circolo si fonde nel Circolo Culturale G. Greppi dando vita al noto Gruppo Fotografico di cui è tuttora membro attivo.
Rinaldo Della Vite si forma nell’ambiente fotografico bergamasco degli anni ’50, assumendo i ruoli di dirigenza che gli permettono di conoscere diversi protagonisti della fotografia italiana dell’epoca.
In quegli anni a Bergamo si vive un clima particolarmente orientato allo sviluppo delle tecniche di realizzazione del reportage e del racconto fotografico.
Questo tipo di interesse è diffuso, in modo più o meno profondo, in tutti i circoli fotografici italiani.
Il “Centro di Cultura Fotografica” di Fermo diretto da Luigi Crocenzi è il punto di riferimento nazionale per lo sviluppo di questo linguaggio fotografico.
A Bergamo si partecipa attivamente alla triangolazione tra Fermo, la “Associazione Fotografica Bergamasca” e l’ambiente fotografico Milanese.
Ogni anno a Fermo tra il 1962 ed il 1971 si organizza l’importantissimo “Concorso di Reportage e Racconto Fotografico” che ha portato alla notorietà i migliori lavori italiani realizzati in quegli anni.
Eminenti studiosi come Antonio Arcari, Renzo Chini, Nazareno Taddei S.J., Alvaro Valentini e tanti altri importanti protagonisti della fotografia italiana danno il loro appassionato contributo allo studio delle opere presentate in occasione di questa rassegna, ed alla teorizzazione sulle capacità espressive del Reportage e del Racconto Fotografico.
Luigi Crocenzi in una lettera del 1955 scrive a Italo Zannier, quale referente del “Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia”, della “… responsabilità Realista del nostro mezzo, di un mezzo d’arte che il progresso umano ci ha fornito e che, del resto, si può dire, fa parte della nostra coscienza, come idea di “servizio” umano, di storia, di espressione poetica libera, ma cosciente.”
Rinaldo Della Vite vive intensamente questo decisivo periodo storico della fotografia italiana del dopo guerra che è anche l’espressione della grande trasformazione democratica in atto nella nostra nazione.
La democrazia della visione
Nel dopo guerra, tutti i ceti sociali partecipano alla rinascita della nazione italiana, lacerata dalle lotte che portarono alla caduta del Fascismo e sconvolta nella propria umanità dalla tragedia della guerra di liberazione dall’occupazione nazista. Da questo travaglio si raggiungono innovativi equilibri sociali e politici, con esiti differenti nelle varie regioni italiane.
Il ceto popolare e medio sono i protagonisti di questa trasformazione che sfocerà nel “boom” economico degli anni ‘60. Essi aspirano ad una democrazia che consenta loro di ottenere migliori condizioni di vita. Quindi operano attraverso la lotta di massa nel versante politico e sindacale e coll’iniziativa individuale in quello, innovativo, della piccola imprenditorialità diffusa avviando imprese artigiane e piccole- medie industrie.
Anche il mondo della fotografia amatoriale è rinnovato da una sorta di “democrazia della visione”. Infatti questa aspirazione di crescita socio-culturale, allarga la base degli appassionati della fotografia. Nei Circoli Fotografici si affiancano alle persone laureate, che fino ad allora erano prevalenti, altre con un livello di studio inferiore ma con grandi qualità umane, estetiche, creative e cariche di forti esperienze esistenziali.
Si apre in quegli anni il dibattito, dai toni accesi, tra i “formalisti” e i “realisti”. Il Circolo Fotografico “La Bussola” di Giuseppe Cavalli, riferimento dei “formalisti”, nel loro manifesto dell’Aprile del 1947, pubblicato dalla rivista Ferrania : “… Non si vuol con questo disconoscere l’utilità nel campo pratico del documento fotografico e com’esso sia vitale per la cronaca e il ricordo dei tempi. Ma il documento non è arte ; e se lo è, lo è indipendentemente dalla sua natura al documento, anzi solo in quanto codesta natura è stata, per così dire, annullata e trasfigurata in un universale sentimento lirico misteriosamente sbocciato nel cuore dell’artista per virtù d’intuizione”.
Paolo Monti , tra i fondatori del Circolo Fotografico “La Gondola”, nel 1955 esprime la sua autorevole opinione: “ Le critiche per il preteso formalismo della Bussola vennero naturalmente da coloro che confondono la verità dell’arte con la empirica bellezza della natura e il dramma della condizione umana con la sbracata retorica del verismo”.
I sensibili esponenti di questo nuovo ceto popolare e medio, come Mario Giacomelli, Pietro Donzelli, Mario Cattaneo, Stanislao Farri, Rinaldo Della Vite e tantissimi altri, apprendono con umiltà le lezioni estetiche dei Circoli Fotografici storici. Essi, però, portano dentro la necessità d’esprimere il loro modo di vedere le cose, caratterizzato dal desiderio di strappare la maschera alla realtà e mostrarne quel volto conosciuto nelle vicende tragiche della loro vita giovanile.
Mario Giacomelli, con la sua opera innovativa, resta estraneo a questa polemica e scrive : “C’è una poesia così intensa e così vera nelle ‘cose’ di Cavalli; anche se io cercavo altre poesie. Lui lirico, io tragico.” , e ancora scrive su Cavalli “… io che gli ero vicino sapevo che odiava tutto quello che era facile, troppo realistico e senza partecipazione … accettava il realismo se veniva espresso come contenuto e forma”.
Pietro Donzelli, dalla sua Milano, pone con decisione la svolta: “… una istintiva necessità che suggerì loro come la fotografia non solo dovesse liberarsi da ogni legame con la pittura, ma soprattutto, dimostrare la sua prerogativa di mezzo d’espressione per far conoscere l’uomo ai propri simili”.
Già negli anni cinquanta inizia anche in Italia l’idea della fotografia intesa come media che non si preoccupa più del suo rapporto con la pittura ma ambisce ad esprimere totalmente un proprio autonomo e specifico linguaggio.
Susan Sontag scriverà, nel 1973, a proposito: “I media invece sono democratici: svalutano il ruolo del produttore specializzato o autore (usando procedure basate sul caso, o tecniche meccaniche che chiunque può imparare; e nascendo da sforzi collettivi o da collaborazioni); considerano come materiale il mondo intero.
Le arti tradizionali puntano sulla distinzione tra autentico e contraffatto, tra originale e copia, tra buon gusto e cattivo gusto; i media sfumano, quando non le aboliscono del tutto, queste distinzioni.”
Il fotogioralismo italiano realizza questa nuova idea di fotografia con riviste di alta qualità fotografica come “Il Mondo” di Pannunzio, “Il Politecnico” di Elio Vittorini che si affiancano alle preesistenti “Oggi”, “Il Tempo”, e sono seguite nel 1955 da “Epoca” e “L’Espresso”.
Vista sotto il profilo del linguaggio fotografico è molto importante anche l’esperienza dei “paparazzi” romani. Questa si presenta come un uso estremo della fotografia intesa come media e nel suo intento predatorio anticipa uno dei territori privilegiati del media televisivo che in Italia inizia i suoi programmi nel 1954.
Questo è lo stimolante ambiente fotografico in cui il trentenne Della Vite vive le sue prime esperienze e quale componente di questa straordinaria generazione, che hanno ricostruito l’Italia del dopo guerra, esprime il suo contributo.
L’opera di Rinaldo Della Vite è vastissima; attualmente raccoglie un archivio di oltre 100.000 scatti, ha pubblicato otto libri fotografici oltre alle numerose mostre in Italia ed all’estero fino a quella, affiancato a H.C.Bresson, nel 1998 al Museo Provinciale di Potenza.
La FIAP lo insignisce dell’onorificenza AFIAP nel 1960, nel 1983 è nominato Accademico Benemerito dall’Accademia Internazionale dell’Arte Fotografica, nel 1989 la FIAF gli conferisce il titolo di Maestro della Fotografia Italiana.
Con il reportage “Basilicata 1962” entra a pieno titolo nell’ambiente significativo della fotografia Italiana, accolto dalla favorevole critica di Mario Finazzi, Giuseppe Turroni e Piero Raccanicchi.
Egli si esprime secondo la poetica della feconda stagione culturale italiana del “Neorealismo” che negli anni ’60 giunge all’epilogo della propria storia scandita da capolavori in tutte le arti e divenuta patrimonio popolare attraverso il cinema, la letteratura e il fotogiornalismo.
La storia del Neorealismo inizia alla fine degli anni trenta, prima ispirato dalla letteratura degli U.S.A. e successivamente dalla fotografia documentaria di quel paese, in particolare dalla campagna fotografica della F.S.A. sulle condizioni sociali della provincia americana durante gli anni ’30 della grande depressione economica.
Nell’ambito della nostra letteratura Cesare Pavese scrive nel 1939 “Paesi tuoi”, edito nel 1941. Pavese è un militante progressista di questa nascente corrente artistica e nel 1945 teorizza il punto di vista dal quale il neorealismo si rapporta con la realtà “Non andare al popolo, ma essere popolo”. In “Paesi tuoi” troviamo già chiaramente delineati i caratteri della tematica e della poetica Neorealista:
“Poi mi portarono a cena, e mi dànno il minestrone in una stanza che sembrava in cantina. Mangiavamo ch’era quasi scuro, e tra donne e bambini si masticava anche le mosche. I bambini facevano mucchio per terra con la scodella sulle ginocchia. La pietanza di noialtri era il vino.
Le ragazze bevevano meglio di me. Ce n’era quattro. Sento che chiamano Miliota quella che aveva portato da bere alle bestie. Con vent’anni aveva la pelle di un uomo a quaranta, e faceva venire in mente il piatto spesso dove mangiavo. Erano quasi tutte scalze, e sotto la tavola pestavo dei piedi, ma loro non sentivano il male. Da mangiare ce ne dava una nonna ch’era la madre di tutte e di Talino e girava a riempire le scodelle dei nipoti, e le dicevano: – Sedetevi, Ma’, – perché chinandosi gemeva e aveva sempre qualcuno nelle gambe. Pareva impossibile, a vedere le figlie, che le fosse uscita di dosso tanta roba. Faceva spavento pensare che schiena e che gambe doveva aver avuto da sposa, e adesso com’era ammuffita. Il vecchio Vinverra, cappellina in testa, ci guardava tutti sopra il cucchiaio, e sorbiva.”
Il soggetto delle opere del Neorealismo è il ceto popolare, non celebrato ma amato, compreso nella sua natura umana e rivelato nelle sue condizioni sociali.
Sempre nel 1939, Don Primo Mazzolari così descrive i caratteri del ceto popolare visti dalla sua esperienza religiosa:
“ Ho visto morire tanti poveri, ne vedo morire ogni giorno. Non un gesto, non un rimpianto. Si accorano se lascian dietro qualcuno che non ha né braccia, né appoggi… Ma ci son le braccia del Signore… <
Sono le uniche mani che hanno avvertito quaggiù e vi si abbandonano con fiducia.
Non si credono buoni: ma hanno portato tanto male senza ritorcerlo.
Son puri di cuore, anche se fuggevolmente hanno desiderato qualche cosa.
Son misericordiosi; e a loro fu usata così poca misericordia.
Son mansueti anche se la ribellione ha talvolta ruggito nel fondo del loro cuore.
Son pacifici: non importa se un giorno han costruito una barricata.
Son affamati e assetati anche se si son chinati a raccogliere qualche briciola caduta dalla mensa dell’epulone.
E hanno pianto senza mostrarlo, perché il povero non deve piangere.”
Il Neoralismo fotografico diventa celebre nei lavori che importanti fotografi hanno realizzato nella realtà meridionale dell’Italia. Esso coinvolge parimenti anche le regioni del nord, con le sue grandi città in tumultuosa crescita e la sua sterminata provincia silenziosa, in particolare nella pianura padana prendendo come soggetto luoghi e comunità che vivono a contatto col grande fiume: il Po.
Cesare Zavattini scrittore e sceneggiatore sostiene che lo spirito neorealistico significa:” una vera carità di tempo di occhi di orecchi data ai fatti, alla gente del proprio paese.”
Zavattini insieme al fotografo americano Paul Strand realizzano un libro fotografico, pubblicato nel 1955, sul paese di Luzzara (RE) che è il luogo di nascita di Zavattini.
Il libro all’epoca della sua pubblicazione passa quasi inosservato, ma nei successivi decenni suggerirà poetiche profonde nella visone della provincia italiana a diversi fotografi, uno per tutti Luigi Ghirri.
Della Vite giunge in Basilicata ben preparato tecnicamente e ricco di un linguaggio fotografico orientato al racconto ed al reportage.
A differenza della enorme folla di fotografi che hanno percorso le regioni del sud in quegli anni, mossi da iniziative personali o da commissioni, non giunge in Basilicata per realizzare il reportage che poi ne è uscito.
Come abbiamo già detto, egli si reca invitato dai parenti della moglie del suo amico scomparso; è bellissimo notare come in questa vicenda egli sia il protagonista di una storia dal sapore neorealista. Le sue fotografie sono l’espressione di un rapporto umano autentico e dell’armonia che egli raggiunge nel vivere alcune settimane in questa secolare civiltà contadina meridionale, ormai prossima alla sua irreversibile trasformazione.
Nelle fotografie si sente tutto l’isolamento di questa terra dagli avvenimenti del mondo, come Carlo Levi denuncia nel libro “Cristo s’è fermato ad Eboli”; per evidenziare una sincronia storica ricordiamo che nello stesso mese, in cui Della Vite è in Basilicata, Papa Giovanni XXIII inaugura il “Concilio Vaticano II” e muore in un incidente aereo Enrico Mattei presidente dell’ENI.
La lontananza dall’attualità del mondo occidentale, che avvertiamo nelle fotografie, non ha però il sapore amaro provato da Carlo Levi, ma il piacere dell’esperienza incantata che Della Vite vive a Melfi, ad Avigliano, a Pietragalla, e al borgo di Frusci. Egli per tre settimane è ospitato nelle loro umili case e ne condivide ritmi e bisogni, tanto diversi da quelli della sua vita di impiegato del nord. Dall’interno dei rapporti umani egli esprime la sua spontanea narrazione fotografica che raggiunge delle intimità non comuni col soggetto.
Il narrare è ciò che anima il suo fotografare, infatti troviamo un complesso articolato di fotografie dello stesso soggetto, egli non cerca la fotografia singola che è il simbolo di tutto un mondo, ma nello spirito del reportage scatta delle fotografie legate tra di loro da una logica narrativa.
La sua visione ha coerenza stilistica che dalla rappresentazione ampia dello scenario, si avvicina progressivamente ai protagonisti, prima con piani medi di ripresa dove ci offre atmosfere ed informazioni dettagliate sull’ambiente, poi conclude con i ritratti nei quali i volti adornati dall’abbigliamento perfezionano il racconto facendo emergere le identità delle persone.
L’elemento che lo attrae è la figura umana, presa in gruppo o singolarmente, ambientata o direttamente colta nell’espressione del volto e nell’intensità dello sguardo frontale verso l’obiettivo.
Nel risultato egli non appiattisce gli elementi della realtà, ma rappresenta le differenze della natura socioeconomica degli ambienti cittadini di Melfi e quelli più contadini dei borghi come Frusci, riuscendo sempre a far emergere la dignità umana, pur messa a dura prova da condizioni di vita estreme.
Nonostante la già forte immigrazione verso le regioni del nord, Della Vite riesce a rivelare i diversi ceti sociali che compongono queste comunità, gli antichi mestieri ancora esercitati, i personaggi che le animano, le arcaiche modalità economiche ancora praticate, come il baratto, e l’ampio uso degli animali come mezzo di locomozione e di lavoro.
Ciò che rende neorealista quest’opera è il modo col quale Della Vite si è rapportato col soggetto riuscendo a “essere popolo” come teorizzava Cesare Pavese.
Il processo creativo
Rinaldo Della Vite è un “realista”. La fotografia del reale gode, con il passare del tempo, di un continuo accrescimento di valore dovuto alla sua capacità di porsi come documento delle sembianze del passato e quindi muovere il processo della memoria umana.
La ragione del successo di Della Vite è nell’aver posto la narrazione fotografica al servizio di specifici argomenti, spesso rivolti a comunità di provincia depositarie di antiche tradizioni.
In questo senso il suo lavoro ha delle analogie progettuali col libro del 1955 “Un Paese” di Paul Strand e Cesare Zavattini.
Nel suo processo creativo, il fotografare è sempre un’operazione consapevole che prende avvio dalla narrazione del soggetto, di cui conosce già la storia.
È un fotografo che dimostra di sapersi rapportare con le situazioni imprevedibili che la realtà gli presenta, traendone spesso l’immagine improbabile, come è accaduto nel reportage sulla visita di Sua Santità Paolo VI in Terra Santa nel 1964.
Della Vite opera libero dalla committenza che può condizionare il professionista e sceglie liberamente i suoi argomenti. Da questa libertà spesso riceve quelle fotografie importanti che raramente la realtà dona, nella sua misteriosa dinamica con cui dispone gli scenari visuali.
Egli è un’ulteriore esempio di come il linguaggio fotografico possa arricchire la vita di un uomo, dandogli la possibilità di produrre opere di alto valore senza necessariamente imporgli la scelta professionale.
Nella visione manifesta con un dinamismo compositivo che a volte gode di un’armonia formale di grande classicità, probabilmente derivategli dalla lezione ricevuta dal pittore Piccinini. Altre volte ci mostra innovativi equilibri e proporzioni in cui la casualità del gesto dei soggetti, colto nel momento significante, ci sorprende per la grande spontaneità. Sapiente è la scelta dei valori visuali del reale che risultano arricchiti attraverso il taglio, gli sfuocati, le proporzioni, la disposizione degli elementi multipli e il gioco delle luci.
Della Vite ci mostra una realtà soggettiva. Per lui, fotografo attento alle cose, è fondamentale la scelta del soggetto. La decisone visiva assume autorevolezza proprio attraverso il suo rapporto con le cose ed è nella composizione dell’immagine che questo rapporto immateriale rivela la sua forma.
Riesce a far emergere la dignità dell’uomo dalla più dura condizione esistenziale senza indebolire il documento. Qualunque sia la situazione umana vissuta sentiamo pulsare nei suoi soggetti una vita interiore di affetti, di convinzioni, di tristezze e gioie.
Rinaldo Della Vite sa che la fotografia gli consente di rappresentare uno scandire di storie umane che resteranno sempre vive nel tempo.




















