Vol. 47 – GIORGIO RIGON – Autore dell’Anno 2004
- a cura di Giorgio Tani;
- 97 foto in bianco e nero
- introduzione di Fulvio Merlak;
- interventi di: Giorgio Tani, Silvano Bicocchi, Cinzia Busi Thompson, Michele Ghigo, Wanda Tucci Caselli;
- cm. 22 x 23 – pagg. 120 – 2004
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Ma del canto dei corpi almeno …
Ma del canto del corpo almeno,
della danza dei corpi in mezzo
alle vigne, Signore,
mi sia dato di renderti
particolari
castissime grazie:
cattedrale delle feste
sono le nozze, il corpo
reggia dell’amore.
David Maria Turoldo, da “O SENSI MIEI …”
Una linea armonica creata tra vissuto e poesia.
Genova 1940, mentre operosi pescatori lavorano nel piccolo porticciolo di Cornigliano, una giovane mamma trentaquattrenne nuota decisa insieme a due dei propri figli verso il largo.
Il mare ligure, ancora sano ed energico, col suo forte sapore di sale e animato dal suo indomabile moto ondoso, accoglie quel bagno quotidiano che spezza le giornate della famiglia Rigon, residente in una casa non lontana dal mare.
È in questa Cornigliano, delegazione popolare di Genova, ancora inviolata dagli stabilimenti industriali, che Giorgio Rigon trascorre i suoi primi ventidue anni di vita. Una località caratterizzata da un habitat naturale che si trasforma con grandi contrasti nell’avvicendarsi delle stagioni.
Un territorio tracciato da sentieri sassosi che portano al mare e ornato da piante modellate dal vento, con le cortecce arse dalla salsedine. Il padre, uomo di poche parole, severo ma generoso, dallo stile di vita austero e parsimonioso, animato nel vivere da lealtà e amor di Patria, comunicava una autorità e una saggezza antica; di origine veneta, era grande amante della montagna.
A 17 anni Giorgio, già appassionato di fotografia, gli esprime il desiderio di possedere un ingranditore per la stampa fotografica. Il padre offre due soluzioni per soddisfare il bisogno espresso: lavorare per guadagnare quanto bastasse per acquistare l’oggetto, oppure, conoscendo le capacità inventive del figlio, di costruirlo da sé.
Certo il ragazzo non avrebbe mai immaginato una proposta così audace. Scelse di costruirlo e fu il primo, molto rudimentale, apparecchio di una discreta serie che, uno dopo l’altro, divennero gli strumenti insostituibili per realizzare le fotografie creative che erano nel suo destino di fotografo.
Il vissuto
Giorgio Rigon, secondo di tre fratelli, nasce nel 1933 a Treia (MC). Il padre Mario, genovese, ragioniere, era funzionario delle Ferrovie dello Stato. Aveva combattuto nella Prima Guerra mondiale come ufficiale di complemento col grado di Sottotenente di Fanteria.
La madre Giuseppina Corazza, nata ad Assisi con ascendenti marchigiani, laureata in lettere a Firenze, insegnava tale materia nelle scuole statali. Latinista provetta era amante della letteratura italiana che seguiva con grande rigore.
Dopo il ritorno da Treia, ove la madre si era recata solo per partorire, i primi vent’anni di Giorgio scorrono sereni tra gli affetti famigliari e l’ambiente sociale del ceto medio genovese. La famiglia Rigon, di origine veneta, si insedia a Genova dopo un avventuroso naufragio subito dal nonno che, da emigrante imbarcato per l’America, fu invece fortunosamente costretto ad approdare a Genova ove visse tutto il resto della vita facendo il portalettere.
L’ambiente della famiglia Rigon era anche influenzato dalle numerose sorelle del padre Mario tra cui molte erano suore: in particolare la zia Ermelinda fondatrice dell’ordine religioso delle Domenicane Predicatrici, per la quale è in atto il processo di beatificazione.
In complesso i tre fratelli Luigi Maria, Giorgio e Paolo vivevano in un’atmosfera colta, in una casa che godeva di un grande giardino, il luogo fantasioso dei loro giochi infantili. La madre, dai lineamenti aggraziati, era esigente nelle prestazioni scolastiche dei figli.
Giorgio non svolgeva gli studi col fervore da lei richiesto e questo era motivo di conflittualità che poi si stemperava nella comune passione per il nuoto. In quei tempi le grandi passioni di Giorgio erano la montagna, appresa dal padre nelle vacanze estive in Val d’Aosta, e le invenzioni tecniche che ideava e realizzava nello scantinato di casa.
La giovinezza la trascorre tra la vita famigliare, quella scolastica e quella parrocchiale, prima nell’Italia fascista poi come sfollato durante gli anni della guerra ed infine nel dopo guerra.
Nell’ambiente giovanile cattolico dell’epoca la relazione con le ragazze era improntata a una netta separazione delle esistenze e dalla conseguente impossibilità di rapporti d’amicizia, come oggi li intendiamo. In questa rigidità di costumi non restava che sublimare ogni pulsione verso la sensualità.
Il giovane Rigon trovò nella passione per la montagna il modo di liberare le necessità di avventura tipiche della giovinezza, portandolo ad acquisire abilità e una discreta stima nell’ambiente degli scalatori.
Scalate svolte anche con due amiche, con le quali visse in spirito di cameratismo momenti di grande libertà che li portava a lunghe escursioni in cui dormivano spesso all’addiaccio.
In particolare, in quegli anni, conobbe molto bene Achille Compagnoni, il futuro famoso conquistatore del K2. Il fratello maggiore Luigi Maria manifestò molto presto il talento per la pittura, quello minore, Paolo, invece la vocazione al sacerdozio ed entrò in seminario giovanissimo.
L’invidia di Giorgio per le qualità artistiche di Luigi Maria si trasformarono, nel tempo, in ammirazione. Anche lui sentiva la necessità di esprimersi attraverso le arti figurative, in virtù anche della cultura umanistica che si respirava in famiglia.
Probabilmente è dalle due propensioni, quella estetica e quella tecnica, che poi egli si espresse con la fotografia che è appunto un’immagine tecnica.
Consegue, nel 1952, la maturità scientifica e, provvidenzialmente per le sua futura indipendenza economica, decide di conseguire l’abilitazione magistrale per godere della possibilità di lavorare nell’insegnamento scolastico.
Nel 1954 la sventura colpisce la famiglia Rigon con il decesso, per malattia incurabile, sia del padre sia della madre. Ognuno dei fratelli percorre la propria strada: Luigi Maria diventa docente di Storia dell’Arte e pittore, Paolo diventa sacerdote e si laurea in Diritto Canonico conseguendo una brillante carriera.
Giorgio, alla chiamata di leva, decide di non prolungare oltre la domanda di rinvio per motivi di studio e di fare il militare come ufficiale di complemento negli Alpini: fu folgorato da questa esperienza e dopo una breve interruzione di due anni, nei quali esercitò il mestiere di fotografo professionista, scelse la carriera militare passando in servizio permanente effettivo nel corpo degli Alpini, fino a raggiungere il grado di Generale di Brigata.
Dal 1959 è felicemente sposato con Maria Assunta Di Piazza. Matrimonio, dal quale sono nati due figli Gabriele e Annalisa, vissuto in 15 diverse città italiane sparse in tutto l’arco alpino, secondo gli avvicendamenti comandati dall’Autorità Centrale.
La fotografia, dalla tecnica al linguaggio.
Già nell’adolescenza Giorgio Rigon è attratto dalla tecnica fotografica perché gli permetteva di provare quella magica emozione di vedere riprodotto sulla carta quanto il suo occhio aveva inquadrato nella fotocamera.
Apprende presto la tecnica di sviluppo del negativo e la stampa a contatto del positivo, processo che matura affinandosi per alcuni anni fino all’acquisizione di una macchina biottica che gli offre la possibilità tecnica, data la migliore qualità del negativo, di realizzare degli ingrandimenti fotografici.
Costruito a 17 anni il primo rudimentale ingranditore, con legno e cartone, inizia la sua attività di camera oscura avvertendo immediatamente la carica di grande potenzialità creativa che possedeva questo luogo straniante, isolato dal mondo, con le sue basse luci rosse e gli odori chimici dei bagni fotografici.
Il cartoncino fotografico 9×12 cm che egli sfilava con parsimonia dalla scatoletta nera, una volta riconosciuta al tatto la superficie sensibile, lo posizionava, nella sua luminescenza, sotto l’ingranditore che già gli prometteva la fotografia ambita mentre guardava l’immagine negativa proiettata nei pochi secondi dell’esposizione.
Non fu immediato l’apprendimento, con le delusioni nettamente superiori ai successi. Ciò nonostante, le soddisfazioni tennero ben alimentata la volontà di progredire in questa avventura affascinante che è l’apprendimento della tecnica fotografica.
Il momento culminante di questa fase si compì nei due anni della breve esperienza professionale, arricchita dalla frequentazione del laboratorio del suocero Diego Di Piazza, stimato fotografo in Gemona del Friuli.
Esperienza professionale che lo portò alla padronanza di tutto il tradizionale processo fotografico chimico e a comprendere come il mestiere di fotografo non fosse il rapporto che egli voleva stabilire con la fotografia, perché in quell’ambito tutto era condizionato alla soddisfazione della committenza, mentre egli sentiva la necessità di esprimere in libertà il proprio mondo interiore.
Raggiunta la maturità tecnica a 27 anni, la sua attenzione si orienta prevalentemente sulla propria capacità espressiva. La sua passione non è più solo rivolta all’evoluzione tecnica bensì alla scoperta della fotografia come linguaggio e quindi all’evoluzione delle proprie immagini fotografiche.
Il buon rapporto che lo lega al fratello pittore Luigi Maria gli permette di addentrarsi nello straordinario momento evolutivo del mondo artistico degli anni ’60. Coinvolto dalla dinamica affascinante delle avanguardie artistiche dell’epoca, assimila le tendenze poetiche dell’Arte Italiana e Internazionale.
La sua fotografia diventa il naturale mezzo per sperimentare questi nuovi stimoli creativi e inizia un lento lavoro di ricerca del proprio stile. Mosso dalla spinta liberatoria dell’esperienza Dada, si sente fortemente attratto dalla Optical Art, dallo Spazialismo, dalla Pop Art, dall’Arte Concettuale, dalla Minimal Art.
Dal complesso delle conoscenze tecniche e poetiche acquisite, prende forma lentamente il linguaggio artistico di Giorgio Rigon che scrupolosamente evita di cadere nella trappola del manierismo, che lo avrebbe indotto a trasferire in fotografia quello che vedeva realizzato in pittura.
Forte della tecnica fotografica e degli stimoli profondamente assimilati dalle poetiche delle avanguardie artistiche, in dieci anni di studio e sperimentazione si appropria di un linguaggio fotografico personale, fortemente innovativo nel panorama della fotografia italiana e internazionale.
Sono i dieci anni che precedono la sua partecipazione ai concorsi ed il suo incontro con la FIAF che trova il primo momento significativo al Congresso di Spotorno nel 1974, nel quale fu esposto il polittico “La strada” del 1973.
In quell’ambito, vissuto da fotografo non iscritto alla Federazione perché il proprio mestiere, impegnativo e itinerante, non gli consentiva la normale frequentazione di un Circolo Fotografico, trova espressioni d’incoraggiamento del Presidente Michele Ghigo e dei compianti Rinaldo Prieri e Umberto Bonfini.
In quell’occasione ebbe il sorprendente invito ad iscriversi al Circolo Fotografico di Como da parte del compianto Leandro Binaghi, allora Vice Presidente di quel Circolo, pagando la quota annuale simbolica di £ 1000. Rigon accetta con entusiasmo l’opportunità offertagli che gli consentiva di apporre dietro alle proprie fotografie inviate ai Concorsi il nome del circolo ed entrare quindi nelle statistiche FIAF e FIAP.
Da allora esce dall’isolamento e si confronta nell’ambiente della fotografia amatoriale italiana dando un importante contributo innovativo, con le proprie fotografie, con i pregiati articoli di critica e di cultura fotografica, con i contributi intellettuali nei decenni cruciali che hanno portato la FIAF alla realtà significativa che è attualmente.
L’intensità del suo “vivere” impegnato nella FIAF è caratterizzato da un amplissimo esercizio di relazioni umane e culturali con gli altri soci attraverso la Mail-Art e una appassionata e puntuale corrispondenza.
Il suo ruolo è scandito dalle onorificenze ricevute e dagli incarichi condotti: è insignito AFIAP nel 1975, EFIAP nel 1980, MFI (Maestro della Fotografia Italiana) nel 1986, Sem. FIAF (Seminatore) 1999.
È presidente del collegio dei Provibiri FIAF dal 1993 al 1998 e Consigliere Nazionale FIAF dal 2000 al 2002. Importantissima la sua attività di diffusione della cultura fotografica sulla rivista, organo ufficiale della FIAF, “Il Fotoamatore” divenuta poi nel 2003 “FOTOIT”, nel Dipartimento Editoriale, nel sito Internet della FIAF e presso i Circoli fotografici come Docente DAC.
La tematica.
Giorgio Rigon è attratto della figura umana, dopo aver realizzato inizialmente opere improntate alla poetica del Neorealismo italiano, con rare distrazioni, di cui la “Vecchia serra ligure” (1977) è un esempio, egli stringe l’angolo della propria ricerca alle relazioni umane che dai momenti collettivi di vita quotidiana, come nella “La strada” (1973).
Inizia poi a indagare sul processo di seduzione che anima il rapporto tra i sessi, con “Visitatori” (1978) “Casta Susanna il mito” (1980) per poi dedicarsi essenzialmente alla rappresentazione soggettiva degli aspetti seducenti della femminilità.
Dagli anni ’60 la donna italiana, sull’onda del femminismo americano ed europeo, inizia una trasformazione radicale che la porta, tra l’altro, alle conquiste delle “pari opportunità” che oggi vediamo in un progressivo conseguimento.
L’emancipazione femminile irrompe nel vissuto di Giorgio Rigon sconvolgendo quel rapporto di incomunicabilità da lui patito nella giovinezza.
Ai suoi occhi, appare con un vigore e una visibilità insperata l’immagine della donna nella fase di libera espressione della sua peculiare identità che in particolare si esprime senza inibizioni ostentando la propria bellezza e sensualità.
Il vivere in ben 15 diverse città ed il suo frequente viaggiare anche nella capitale gli offrono l’opportunità di una osservazione ampia del fenomeno, egli segue nei decenni questo mutamento epocale del costume che diventa il tema fondamentale della propria opera.
La poetica.
Come ogni appassionato di fotografia, egli inizia emulando gli stilemi del proprio tempo, ma dopo aver concluso a 27 anni la fase dell’apprendimento tecnico, la vocazione verso la “fotografia creativa” lo allontana dalle ricerche specifiche dell’ambiente fotografico dell’epoca e lo avvicina al fecondo ambiente artistico italiano e internazionale degli anni ’60.
Le poetiche innovative, promosse dalle avanguardie artistiche di quegli anni, gli consentono di ideare opere atte a soddisfare la forte necessità interiore tesa alla costruzione di un proprio linguaggio espressivo.
Operazione non semplice da compiere, perché di rottura sia verso l’ambiente artistico, sia verso quello fotografico italiani che ancora non interagivano tra loro perché bloccati dal problema storico incentrato sul dilemma: “La fotografia è arte?”.
È proprio in quell’epoca che la fotografia trova un terreno fertile nel mondo artistico perché, come spiega Giulio Carlo Argan: “La nozione di segno emerge, nell’arte europea, proprio quando si delineano in altre discipline, specialmente nella glottologia, le ricerche semiologiche e strutturalistiche: quando, cioè, ogni disciplina sente la necessità, per sviluppare la propria metodologia, di analizzare e chiarire il significato dei propri segni.
Anche nell’arte la ricerca segnica è l’inizio dell’esigenza di rimettere in causa la ragione e la funzione istituzionale dell’arte stessa.”
In Rigon si avvia un processo teso a soddisfare questa “necessità, per sviluppare la propria metodologia, di analizzare e chiarire il significato dei propri segni.”.
La sua poetica è segnata dal fecondo incontro tra il segno fotografico, da lui intimamente compreso nel proprio specifico, e la conoscenza dell’arte contemporanea.
L’Optical Art gli chiarisce la capacità che può avere un’immagine statica nel creare l’idea del movimento. Una volta acquisita questa difficile abilità, Rigon la impiega largamente nella sua opera rivelandoci come esista “una relazione fra tensione dinamica e immobilità di fatto”.
La Pop Art gli apre una visione del reale dove il “ready made”, secondo l’interpretazione del filone americano di Jhons e Warohl, costruisce in Rigon l’idea “Concettuale” di “Oggetto trovato”, fotograficamente inteso, che orienta la sua ricerca verso il frammento del reale.
Lo “Spazialismo” e la “Minimal Art” completano il repertorio culturale che gli permette, nella fase di stampa, di giungere alla sublimazione del frammento fotografico grezzo che elevato a “sineddoche”, questo non rappresenta più il reale ma l’idea soggettiva che egli ha elaborato nel rapporto con la realtà.
L’assimilazione delle poetiche delle avanguardie artistiche educano, potenziano, orientano la percezione di Rigon. Quindi nella fase dell’ideazione il suo punto di vista acquisisce una posizione di particolare originalità e complessità, dalla quale egli si rapporta con la realtà e nella quale trova il linguaggio atto a trasfigurare le sembianza del reale in una fotografia iconica.
Data la natura del soggetto da lui prescelto, tutto diventa estremamente intenso, a partire dall’incipit che egli riceve al momento dello scatto nel cogliere i segni della seduzione femminile.
Una seduzione vissuta in solitudine estatica, infatti il soggetto è inconsapevole del suo agire. Un sentimento di seduzione particolare, comprensibile solo se riferito al suo complesso impianto culturale, perché è essenzialmente legato alle potenzialità artistiche che egli previsualizza o intuisce nel soggetto.
René Magritte ne “La linea della vita” afferma che: “La natura ci concede lo stato di sogno che offre al nostro corpo e alla nostra mente la libertà di cui abbiamo impellente bisogno”.
Giorgio Rigon già nel momento straniante della osservazione e poi dello scatto, entra nel suo “sogno creativo” che gli permetterà nella stampa la rappresentazione del mito universale della seduzione femminile nelle sue infinite forme reali e immaginarie, tipiche del suo tempo.
Il processo creativo
Il suo processo creativo è distinto in due fasi nettamente separate. Una lo scatto e l’altra la stampa. Nel fotografare si evidenzia l’uomo che cerca dentro alla vita quotidiana il proprio “Oggetto trovato”.
Il suo intenso atto fotografico è eseguito nascostamente per cogliere la freschezza di un’esistenza. Il momento dello scatto assume per Rigon il gesto dell’appropriazione del segno, fotograficamente inteso, che lui vede espresso dal soggetto.
In questo senso quel momento assume per l’autore una forte valenza liberatoria: la sua nascosta azione espressiva lo mette in intimo contatto con le movenze seducenti del soggetto.
Scatti fotografici silenti e fortuiti, nei quali egli è sedotto dal reale e che nella maggior parte dei casi non giungeranno mai alla stampa. Già fotografare è per lui un momento esaustivo ai fini del proprio rapporto con la realtà.
Ciò non deve stupire, c’è chi fotografa producendo prevalentemente diapositive e quindi limitando il proprio processo creativo al solo scatto fotografico.
La stampa inizia dalla lettura selettiva e distaccata, anche nel tempo, dei negativi volta alla ricerca dell’impronta fotografica adatta ad essere finemente elaborata. In questa accurata rilettura delle immagini gioca potentemente la casualità che sempre anima la fotografia.
Non è raro per lui vedere nel negativo anche quello che il suo occhio non aveva colto al momento dello scatto. Scelto il “segno” segue la fase dell’ideazione definitiva della stampa fotografica.
In questa fase egli affronta la sfida che gli impone il foglio bianco da impressionare e percorre metodologie analoghe alla pittura nel porre in relazione formale il “segno” col foglio di carta sensibile.
Ancora G.C. Argan ci aiuta a comprendere questa fase: “Il segno è una forza che agisce in un campo ed i cui limiti sono i limiti della propria influenza. Più segni compongono un sistema; è sistema un insieme di segni interagenti.
Anche la relazione di un unico segno col proprio campo costituisce un sistema”. Giorgio Rigon progetta e costruisce, per stampare le proprie immagini, degli ingranditori basculanti che gli consentono di deformare la figura del reale, intaglia complesse maschere che isolano sulla carta sensibile solo i frammenti desiderati, utilizzando anche diversi negativi per una stessa immagine.
In questo modo egli annulla ogni presenza indesiderata e costruisce un’immagine essenziale che impedisce ogni mediazione del significato da parte del contesto in cui sono state scattate le foto.
Da qui ci spieghiamo lo specifico rapporto esistente tra la figura fotografica ed il candore della carta non impressionata. Oppure la scelta di inserire elementi grafici che frammentano il campo in spazialità ben precise dove il “segno” trova quella giusta proporzione che lo esprime, o il delicato intervento manuale nel tratteggiare a china le forme che suggeriscono proporzioni che egli, pur sapendo, non ha voluto definire fotograficamente ma piuttosto col proprio segno calligrafico.
L’immagine stampata è quindi essenzialmente l’immagine da lui ideata; attraverso questo percorso creativo egli vive la metamorfosi che da sedotto lo trasforma in seduttore.
Conclusioni.
Quel che colpisce nell’opera di Giorgio Rigon è la sua totale improbabilità, se riferita alle aspettative storico e critiche della fotografia italiana dell’epoca.
Tanto improbabile da restare unica perché caratterizzata da uno stile così soggettivo che ogni emulazione scivola fatalmente nella imitazione.
Basta sfogliare il volume che celebra il 50° Anniversario della FIAF per rendersi conto della novità che la sua opera ha portato nella nostra fotografia.
Nonostante questa forte innovazione, le sue immagini hanno la capacità di essere fruibili ad ogni livello culturale; seducono chiunque le guardi e parimenti reggono l’analisi critica più sofisticata.
Infatti egli, con la scelta tematica, ha compensato la forte novità linguistica offrendo una naturale facilità di comprensione del messaggio.
Se ci fermiamo alla lettura istintiva, del mito della seduzione, perdiamo molto rispetto a quanto invece possiamo leggere se approfondiamo la conoscenza del suo linguaggio.
Un linguaggio complesso quello di Giorgio Rigon, difficile come può essere il raggiungimento di un’armonia, coraggioso come una scalata solitaria di una parete montagnosa, quando solo il rocciatore sente il perché di quel gesto ardito e la gente di sotto guarda il suo salire tra lo stupito e l’ammirato non capendo il perché di questa scelta.
La natura creativa delle sue immagini è esplicita, come è altrettanto evidente che in esse troviamo il linguaggio fotografico organizzato formalmente secondo i criteri tipici della pittura.
Egli, nonostante la sua natura creativa, sente profondamente il segno fotografico e mai ha realizzato o realizzerebbe una fotografia iconica ingannevole tendente alla verosimiglianza del reale.
Questa etica si pone in contrasto con quanto invece, sempre più spesso, accade nella fotografia contemporanea elaborata con mezzi digitali, i cui autori si compiacciono nel perseguire la ingannevole verosimiglianza, con il risultato di demolire ogni attributo di autenticità del segno fotografico.
Egli è geloso di questa autenticità e, isolandola nel folio bianco, cerca di trovare nel frammento la rappresentazione del suo significato originario, mentre nella figura intera si impadronisce dei segni del tempo e nascono immagini definitivamente marchiate dal costume di un’epoca.
L’introduzione del digitale nelle proprie immagini egli la realizza con un pudore esemplare, anche qui esplicitando la natura del segno, creando la forma attraverso una bassissima risoluzione che evidenzia i pixel; è proprio questa evidenziazione che genera modernità e novità.
Ogni sua immagine, sia singola o composita, colpisce la percezione del lettore come un “colpo di fulmine” che penetra nell’inconscio generando una forte attrazione. Tutto è solo dovuto al soggetto? No! Le sue fotografie iconiche sono dispositivi visivi ottenuti con gli strumenti sofisticati di rappresentazione che prima abbiamo illustrato.
In conclusione quale identità artistica emerge dalla sua opera? Il suo vissuto ci offre elementi che evidenziano un percorso evolutivo originalissimo che ha toccato interamente la sua persona.
Nella propria soggettività ha vissuto i conflitti interiori che hanno coinvolto tutta la sua generazione. La fotografia è stato il linguaggio col quale è riuscito nell’ardua impresa di tracciare una linea armonica tra il proprio vissuto e la sua profondissima poesia.




















