Vol. 50 – IVANO BOLONDI- Autore dell’Anno 2005
- a cura di Giorgio Tani;
- 92 foto a colori
- introduzione di Fulvio Merlak;
- interventi di: Sergio Magni, Silvano Bicocchi, Cinzia Busi Thompson;
- cm. 22 x 23 – pagg. 120- 2005
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Rivelazioni ed emozioni di un viandante.
Il carro agricolo di legno trainato dal cavallo andava lento verso casa, marcando con le ruote cerchiate di ferro il viottolo in terra battuta e sassi di fiume. La carreggiata divideva in due i campi coltivati da una parte a erba medica e dall’altra a vigna e frutteti. Sul carro scarico un uomo e un bimbo; l’uomo seduto teneva le redini dell’animale e con un leggero schiocco di frusta ritmava l’andamento della marcia.
Dietro sul pianale libero del carro il bimbo, Ivano Bolondi che allora aveva otto anni, giocava incantato dagli stimoli procurati dall’andamento ondeggiante del carro sul terreno sconnesso. Sentiva l’armonia laboriosa e antica tra i comandi dell’uomo e le risposte dell’animale che muoveva lesto i forti muscoli dondolando la coda, unica parte insieme alle zampe libera dai finimenti che lo legavano al carro.
Il bimbo ora in piedi, ora seduto, ora sdraiato, si lasciava cullare da quel movimento magico che ad ogni angolo gli apriva la visione di nuovi scenari: le prospettive dei filari profondi e intrecciati della vite, i prati d’erba che gli parevano immensi nel congiungersi, là lontano all’orizzonte, col cielo azzurro altissimo gonfio di nubi bianche dalle forme fantastiche che rimandavano la mente ad altri mondi. Gli odori nell’aria, mossa dall’andare del carro, completavano la percezione di un mondo nel quale si sentiva amato.
Con gli occhi chiusi pensava ai giochi che avrebbe costruito per i suoi cugini che lo aspettavano a casa negli angoli del cortile, nel fienile, nella stalla, nei campi alberati attorno al casolare dai quali egli vedeva sua madre affaccendata nei lavori domestici con le altre zie. Nelle lunghe serate d’inverno, dopo la cena consumata tutti insieme nell’ampia stanza del camino attorno al quale le donne cucinavano, si andava nella stalla che accoglieva l’intera grande famiglia nel il suo intimo calore animale.
Tutti erano assorti ad ascoltare quelle vecchie storie popolari tramandate a memoria dalla cultura contadina. Grazie alle capacità interpretative del narratore esse riuscivano ancora, a stupire, a far piangere, a far ridere tutta insieme l’assemblea di bimbi, giovani e adulti prima d’andare a letto in camere gelate, riscaldate solo da un grande calore umano.
Un mondo antico povero di mezzi ma ricco di un’etica incentrata sull’onestà ed il rispetto della persona che siglava un contratto sulla parola e attribuiva alla cultura più valore di quello dato al denaro. Questa civiltà che considerava talenti misteriosi la curiosità e la genialità, è la radice profonda che ha formato Ivano Bolondi e lo ha orientato nel rapporto con la vita che lo attendeva piena di esperienze inimmaginabili in quel lontano anno 1949.
Il vissuto
Ivano Bolondi nasce a Montecchio dell’Emilia nel 1941. Il padre Zuarino era un agricoltore che oltre a coltivare i campi era specializzato nel curare la fase della stagionatura del formaggio Parmigiano Reggiano. La madre Barberina Ferroni curava la casa e tutte le altre mansioni che la civiltà contadina affidava alle donne.
Il fondo agricolo sito vicino al molino Zurli sulla strada che da Montecchio dell’Emilia porta a San Polo, era condotto con il contratto di mezzadria dalla famiglia Bolondi che, come era in uso all’epoca, univa sotto lo stesso tetto le forze e le vite di numerose famiglie. La famiglia patriarcale Bolondi era formata da quattro nuclei famigliari, tante quante erano quelle del padre Zuarino e i suoi tre fratelli, in tutto quattordici anime in cui convivevano tre generazioni.
Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso iniziò il declino di questo arcaico modello di civiltà che rapidamente scomparve con l’irruzione della meccanizzazione del lavoro nei campi e l’industrializzazione che trasformò i contadini in operai metalmeccanici e contribuì negli anni ’50 al boom economico italiano. Ivano Bolondi crebbe proprio in questa fase storica di grandi trasformazioni della società italiana, uscita nel 1945 dalla guerra e dall’esperienza cruenta del regime fascista.
La civiltà contadina, non avendo ne denaro ne conoscenze scolastiche, si reggeva sul valore della persona intesa sotto l’aspetto delle attitudini lavorative e morali. Gli uomini si occupavano della coltivazione dei campi e dell’allevamento di bovini da latte; conducevano attività agricole che allora non avevano le dimensioni industriali di oggi.
Le donne erano di supporto agli uomini nei campi e governavano le attività familiari nell’accudire i bambini e gli anziani. Oltre le attività di casa gestivano tutto ciò che era attorno al casolare, dalla sua pulizia all’allevamento degli animali da cortile che con le verdure dell’orto costituivano gli ingredienti dei loro pasti. Facile intuire come queste piccole comunità sentissero legate le loro vite, pur nella difficoltà che la convivenza tra persone adulte impone. I bimbi si sentivano tutti affratellati e Ivano Bolondi, essendo figlio unico, sentì fratelli i cugini.
La sua personalità creativa si rivelò ben presto nella capacità inventiva di costruire dei giocattoli per i suoi amici. Egli fece le scuole elementari e poi le medie inferiori. Già in quell’età nei primi anni cinquanta preferì alla coltivazione dei campi l’officina di Guglielmo Melloni, un meccanico riparatore di motori agricoli. Finite le medie iniziò a lavorare in officina con grande passione che lo portò all’età di diciott’anni a condurre da solo l’attività artigianale lasciatagli dal Melloni che decise di emigrare in Svizzera.
Inizia la sua attività imprenditoriale di artigiano riparatore di attrezzature meccaniche agricole rivolto ad un territorio esteso tra il Reggiano ed il Parmense. Ora vive in prima persona il rapporto con quel mondo contadino che ben conosce, impronta le relazioni commerciali su un piano di serietà professionale ed economica che non richiede contratti scritti ma si avvale di rapporti onesti sulla parola e la stretta di mano. La sua mente inventiva lo porta a brevettare un accessorio per il taglio dell’erba “Ragno”, rimane in questo settore fino al 1967.
La conoscenza di Guglielmo Melloni è per Bolondi l’occasione decisiva per la sua vita perché da lui apprende la formazione meccanica motoristica basilare per il suo lavoro e la passione per il viaggiare in moto; infatti il Melloni fu un grande avventuroso viaggiatore in motocicletta, detentore all’epoca anche di significativi primati.
Nel 1965 sposa felicemente Eugenia Baldi nella quale trova la compagna ideale per realizzare le proprie aspirazioni lavorative ed esistenziali; da allora condividono ogni esperienza. Anche a Eugenia piace viaggiare e già durante il fidanzamento inizia una numerosissima sequenza di brevi viaggi in moto con sidecar che li porta per l’Italia, poi in Svizzera, in Austria e l’Europa intera.
Studiano l’inglese e iniziano a viaggiare ora in aereo; la loro vita senza figli, pur nel rammarico del desiderio insoddisfatto, offre loro una possibilità di movimento insolita che mettono a buon frutto iniziando a viaggiare per tutto il mondo.
Ivano Bolondi imprenditore, gradualmente sposta la sua attività da quella di servizio delle riparazioni a quella della ideazione di soluzioni industriali e produzione di attrezzature volte al lavaggio automatico di contenitori per i settori alimentare, chimico, farmaceutico.
Dagli anni ottanta ha condotto la sua attività in un continuo sviluppo del prodotto e del processo di fabbricazione realizzando soluzioni di alto contenuto tecnologico. Le attrezzature da lui realizzate hanno una meccanica geniale nella sua apparente semplicità; egli da buon artigiano prima le costruisce in base alle proprie intuizioni e poi una volta ottenuto il prodotto lo fa disegnare per poterne realizzare una produzione in serie. La sua azienda l’ha sempre mantenuta a delle dimensioni tali da riuscirla a dominare e non essere dominato, e come lui ama dire: ”per non smarrire il senso e la qualità della vita”.
La fotografia e il viaggio.
Ivano Bolondi è sempre stato attirato dal fascino che l’immagine fotografica possiede nel far rievocare i momenti della vita. Egli incomincia a fotografare nell’adolescenza, con una Agfa Silette e poi successivamente una Verra, per ottenere delle foto ricordo che pian piano iniziano a formare in lui spontaneamente l’interesse per una personale visione della realtà. A Ventisette anni compra la prima reflex, una Nikkormat con un solo obiettivo che diventa una compagna inseparabile di viaggio.
Presto manifesta una forte necessità di fotografare, in bianco e nero, ciò che sta scomparendo nella realtà paesana; così scopre l’emozione del fotografare per salvare la memoria di ciò che ha conosciuto e costituisce parte delle radici della propria identità. Nel 1976 Ivano Bolondi, Luigi Boni, Pellegrino Cattani, Walter Ferrari, Gianni Gasperetti, Gualtiero Gherri, Claudio Martelli, Pierluigi Martini, Renzo Pelori, Enzo Salati, fondano il CINEFOTOCLUB MONTECCHIO che si qualifica nel documentare puntualmente la vita sociale paesana.
Nel 1978 inizia la frequentazione ogni lunedì sera del GAD (Gruppo Amatori Diapositive) di Reggio Emilia. Mentre nel circolo di Montecchio dell’Emilia partecipava all’attività sociale con gli scambi di cultura fotografica e attività documentarie sulla vita di paese, l’esperienza del GAD è un momento decisivo di crescita del linguaggio fotografico di Ivano Bolondi.
Questo avviene attraverso il confronto aperto con gli altri fotografi, provenienti da diversi circoli della città e della provincia, diventando per lui il punto di riferimento nel quale verificare le nuove opere e trarre una forte motivazione nel fare e far sempre meglio perché il livello del confronto è alto. Infatti il GAD sviluppava, e ancor oggi promuove, una qualificata attività collettiva di visione e critica dell’opera audio visiva caratterizzata dalla lettura e dall’analisi critica guidata dal compianto Francesco Bianchi: un uomo carismatico, sensibile e colto.
L’ambiente umano era quello vivace, creativo, spiritoso, ironico e schietto della cultura popolare reggiana. Si vedevano gli audio visivi e nella successiva discussione ci si addentrava profondamente nella struttura del linguaggio e la comprensione dei significati che l’opera promuoveva con l’intreccio espressivo di immagini, musica e testi parlati.
Oppure la platea si liberava in giudizi senza inibizioni nella critica di “Poche da discutere”. Erano poche immagini di autore sconosciuto che venivano soggette alle più feroci critiche. Il fatto di non conoscerne l’autore lasciava l’immagine sola con le proprie qualità espressive; un esercizio originale che consentiva una critica estrema non possibile se si fosse conosciuto l’autore, per la naturale influenza positiva o negativa che questo avrebbe indotto nella platea.
Poteva capitare che un autore stimato trovasse una critica negativa e uno sottovalutato godesse di un momento gratificante. In questa arena, severa ma amata da Bolondi, egli matura la propria identità di autore che si orienta decisamente verso una visione fotografica fortemente soggettiva e nella realizzazione di opere innovative sia nei contenuti che nei mezzi tecnici impiegati, in breve: innovazione nell’invenzione a tutto campo.
Nascono i paesaggi alla Bolondi caratterizzati da una linea dell’orizzonte mai posta centrale nell’inquadratura ma sempre sbilanciata nell’equilibrio tra cielo e terra che a volte si risolvevano in un cielo immenso con una sottile striscia di terra o il suo contrario. O i ritratti alla Bolondi, fatti con il grandangolare 18 mm, con visi posti in primo piano sapientemente inseriti nel contesto ambientale.
Man mano che Bolondi produce i suoi audio visivi inizia un’altra attività diventata nel tempo molto significativa per l’ampia frequentazione dei Circoli Fotografici di tutta Italia che a tutt’oggi conta più di 800 serate in oltre 20 anni. Parallelamente ha sviluppato anche una qualificata attività espositiva sia di collettive che di personali. Negli anni il pubblico che ama le sue opere è diventato davvero enorme e la gratificazione è tale da attivare in lui un circolo virtuoso di crescita umana, culturale, fotografica che rende il suo viaggiare fotografando l’esperienza più importante della sua vita.
Un’esperienza quella di Bolondi molto particolare perché in questo caso la crescita è stata di coppia: la moglie Eugenia ha un ruolo determinante nell’aver permesso questa crescita attraverso la condivisione intima delle esperienze, dal circolo di Montecchio, al GAD, alle serate di proiezione presso i circoli e le numerose mostre. Siamo davanti ad una coppia che ha condiviso tutto: appartengono allo stesso ceppo culturale, entrambi amano un certo modo di viaggiare rivolto alla conoscenza intima del mondo.
Dal punto di vista della evoluzione culturale siamo di fronte a due persone che hanno raggiunto una sintonia rara. L’atto fotografico di Bolondi non è mai stato turbato dalla presenza della moglie, anzi Eugenia, che non fotografa, ha sempre creduto importante l’attività fotografica del marito tanto da farla propria col suo contributo, dopo il viaggio, nella realizzazione dell’audio visivo che lo rappresentava. Spesso hanno viaggiato soli in macchina nel Nord Europa, Nord America, Australia, Nuova Zelanda, Messico, Sud America, Namibia, Senegal, Marocco, Argentina, Perù, Bolivia, Equador, ad esempio hanno percorso circa 90.000 Km nelle strade della provincia U.S.A..
Poi con autista del luogo in Birmania, Tailandia, Vietnam, Cambogia, Indonesia, Sri Lanka, India, Papua Nuova Guinea, Libia, Madagascar, Zambia, Malawi, Mozambico. Un viaggiare che non si stanca di fermare la sua corsa per interiorizzare un luogo per incontrare persone. Bolondi in questa condizione ideale ha potuto crescere in libertà e in armonia umana e culturale con la moglie Eugenia e raggiungere traguardi invidiabili come testimoniano le due premiazioni (2° premio nel 1982, 3° premio nel 1998), e le due Menzioni d’Onore (1994, 2000) ai Nikon Photo Contest International oltre ai numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali.
La tematica.
La tematica affrontata da Ivano Bolondi è la rappresentazione della vita umana colta in relazione alle diverse aree geografiche in cui essa si compie. Quindi una tematica aperta, a volte rivolta a storie vive di accorata attualità, altre volte storie di civiltà scomparse andando alla ricerca delle antiche tracce ancora presenti nella quotidianità.
Una passione affine a quella dell’etnologo che trova nel viaggiare il modo di conoscere il mondo nei più diversi e contrastanti aspetti generati dagli squilibri economici e le diversità socioculturali esistenti nel pianeta. Data la vastità del territorio indagato, la sua visione fotografica diventa punto nodale nel quale si incrociano le contraddizioni dell’umanità contemporanea: egli fotografa il sud del mondo pensando al nord, l’est pensando all’ovest e viceversa.
Conosce dal loro interno le opposte tensioni esistenziali del nostro tempo: quelle delle società industrializzate e le altre del terzo mondo. Il suo vagare tra i due poli umanitari è inevitabilmente anche una escursione nelle diverse epoche della condizione umana: egli può passare in breve tempo dal contatto con gli aborigeni australiani alla realtà metropolitana di New York. Per affrontare un tema così vasto e complesso i coniugi Bolondi preparano con la massima cura ogni viaggio studiando la storia delle popolazioni e le caratteristiche ambientali dei luoghi che visiteranno.
Un’idea del viaggio da loro spontaneamente esercitata e poi riconosciuta nelle parole di Pino Cacucci “ Si possono percorrere milioni di chilometri in una sola vita, senza mai scalfire la superficie dei luoghi né imparare niente dalle genti appena sfiorate.” …”Viaggiare con occhi sgranati sulle meraviglie altrui è inutile, quando l’anima resta chiusa nella cassaforte di casa.”…” Il senso del viaggio sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare, sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata.” Le storie conosciute e gli incontri vissuti sono stati tanti.
Kenya anno 1992 – In una notte stellata nel cuore dell’Africa, Bolondi era con l’amico Hassan Kombo nel cortile della sua casa e insieme guardavano assorti il cielo equatoriale avvolti dagli odori e i rumori della savana, egli chiese ad Hassan: “Che ore sono?”, la risposta fu lapidaria, “Cosa ti importa che ore sono? E’ notte!”.
Argentina anno 1999 – I coniugi Bolondi percorrono un itinerario montagnoso con immensi spazi deserti. In uno di quei luoghi sperduti nella Cordigliera delle Ande incontrano festosamente una famiglia composta da marito, moglie con prole che abitano in una povera casa vendendo ai rari passanti delle terraglie di loro produzione.
Vedendo la condizione estrema della loro esistenza Bolondi chiede al capo famiglia come mai abitano in un luogo così isolato. La risposta fu una lezione memorabile: “Dietro la casa c’è il torrente che ci fornisce l’acqua tutto l’anno e questo ci permette di vivere, poi noi qui siamo liberi nella testa e nel cuore”.
Due messaggi indimenticabili che hanno scosso profondamente Ivano Bolondi perché provenienti da un linguaggio affine a quello della civiltà contadina in cui è nato, due richiami al proprio originario che gli hanno riproposto alla coscienza dei valori appartenenti alla sua identità più profonda, provocando in lui mutamenti di atteggiamento nella conduzione della propria vita e nel rapportarsi con il mondo.
La poetica.
È difficile riconoscere nelle immagini di Ivano Bolondi l’appartenenza ad un’unica influenza poetica con riferimento alle correnti artistiche del ‘900. Di certo la sua poetica, cioè il punto di vista dal quale vede le cose, è sempre in costante mutamento: iniziata dall’idea di reportage di viaggio è oggi orientata a comunicare le emozioni provate nel rapportarsi con le diverse realtà del mondo.
Ha attraversato negli anni poetiche affini al realismo lirico, al simbolismo e all’espressionismo. Un percorso spontaneo guidato dalle stesse leggi naturali che fanno crescere un grande albero nella foresta, ma non sappiamo chi l’abbia messo proprio lì e come sia riuscito a crescere così tanto. Un fenomeno ben giustificato da Rudolf Arnheim, grande studioso dei problemi posti dall’espressione umana: “Per una concezione più adeguata all’umana natura è necessario tener conto degli scopi nella vita, dell’impulso verso la crescita e la stimolazione, degli allettamenti della curiosità e dell’avventura, della gioia di esercitare il corpo e la mente, e del desiderio di realizzare e conoscere.”
In questa frase di Arnaheim troviamo la chiave per comprendere la poetica di Ivano Bolondi.
Questo percorso naturale non è difficile da comprendersi se pensiamo alla natura umana dell’autore animata da un’innata vocazione all’invenzione. La necessità di inventare inizia dalla presa di coscienza di un problema da risolvere, questo indipendentemente dal fatto che sia un problema tecnico o espressivo. Il problema tecnico è posto da una oggettività pratica.
Il problema espressivo nasce in Bolondi dalla necessità di risolvere un proprio problema interiore, la cui natura immateriale ne rende, a lui e a noi, più difficile la comprensione. Il problema interiore è generato dall’indole sensibile e curiosa dell’autore nell’interagire alle stimolazioni della realtà. Il senso dell’invenzione, riferito all’immagine fotografica, è animato dall’intuizione che gli consente di previsualizzare nel reale il simbolo formale che rappresenta l’emozione sentita.
L’emozione in Bolondi è simile a quella dell’inventore che ha trovato la soluzione, è quella del fotografo che nel proprio travaglio interiore, di domande consce o inconsce, infine trova la risposta in una fotografia. Scaricare in uno scatto fotografico tutto un complesso di forti sentimenti, caratterizzati sì da conflitti ma anche da profonde pacificazioni interiori, è il momento emozionante in cui l’immateriale diventa visibile ai suoi e ai nostri occhi.
Il viaggio diventa l’ambito in cui egli materializza nelle fotografie le proprie scoperte e il momento in cui assimila nuovi incipit per le sue ricerche future. Quando il viaggiare è un frequente esercizio di libertà, come nel suo caso, esso diventa un fattore di dilatazione, di proporzioni non consuete, dell’angolo di visione della realtà. L’effetto di questa forte e continua stimolazione su un uomo sensibile e creativo è ora rivelato nelle sue fotografie dove il mondo ci appare senza confini.
Una poetica che si è evoluta nel tempo e che oggi trova una definizione fedele nelle parole di Pino Cacucci: “Il punto di fuga è quello da cui partono infinite linee : basta seguirle, per scoprire altrettante realtà, dimensioni, mondi. Non è solo un modo per fuggire, ma anche per capire quanto siano risibili le cose che ci sembrano assolute, se appena le guardiamo da lontano. E tornare, serve a riguardarle da vicino con occhi diversi”.
Ne esce un percorso poetico molto originale dove la sua visione improbabile genera fotografie che frequentemente al primo sguardo sorprendono il nostro gusto con la loro novità. Ivano Bolondi vive le stagioni della propria vita animato dalla necessità incessante di innovare lo stile del suo linguaggio e i contenuti del suo messaggio nel senso in cui intendeva la “novità” Cesare Zavattini cioè come un segno di “appartenenza al proprio tempo”.
In questo modo comprendiamo sia quelle immagini pervase da equilibrio, ordine, incanto e quelle altre dal graffiante apparente disordine che dopo il primo sguardo ci donano l’emozione di aver conosciuto un nuovo ordine misteriosamente capace di rappresentare aspetti profondi dell’esistenza umana.
Il processo creativo
Il processo creativo di Ivano Bolondi è tutto incentrato nell’atto fotografico. Infatti egli realizza in prevalenza diapositive e anche quando fa stampare le sue foto non ammette interventi estranei al minimale ritocco fotografico. Non ammette neppure di scattare esposizioni multiple; ciò può apparire un atteggiamento di un radicale purismo fotografico se pensiamo al suo estro e alle attuali tendenze dominanti nella fotografia contemporanea che di buon grado accettano immagini fotografiche di natura creativa.
Ma non è questo l’aspetto che consente di comprendere le ragioni di questa sua scelta. Egli è legato, anche nell’immagine più creativa, alla necessità interiore di un rapporto folgorante con la realtà dovuto all’”aura” di ”hic et nunc” cioè “qui ed ora”, un’aura vissuta intimamente ancor prima di essere rappresentata nell’immagine.
D’altronde le sue sono fotografie di viaggio e nella sua matura idea del viaggiare c’è la profonda consapevolezza della irripetibilità nella coincidenza tra il luogo ed il momento; per Bolondi è irrinunciabile il legame dell’immagine fotografica con questa irripetibilità perché lo rimanda al ricordo di quel determinato viaggio. Fatto salvo questo basilare aspetto comune a tutte le sue immagini, da quelle realiste a quelle creative, egli impiega tutte le possibilità tecnologiche offerte dalla propria fotocamera per trasformare la visione oculare della realtà: dagli autofocus più evoluti combinati ai diversi sistemi d’esposizione, sempre da lui governati nella scelta della coppia tempo/diaframma.
Sente la necessità interiore di trovare la rappresentazione soggettiva della realtà, il ché impone la trasformazione delle sembianze del reale. Qui inizia la fase inventiva della previsualizzazione dell’immagine fotografica che lo induce nella scelta dell’ottica e del punto di ripresa. Per Ivano Bolondi rendere soggettiva un’immagine della realtà, vuol dire trovare un significante affine al reale nel quale permane l’autenticità del segno indiziale (cioè il legame con la realtà) mentre il segno mentale (cioè l’icona) è la libera rappresentazione del proprio sentito, quindi un’immagine che potrebbe essere estranea alla comune visione oculare della realtà.
I mezzi tecnici impiegati da Bolondi a questo fine sono: la scelta della luce d’esposizione, dei tempi di ripresa e le ottiche estreme, il grandangolo da 17 mm e il teleobiettivo da 400 mm.
Le conseguenze sul linguaggio fotografico sono molto importanti. Il radicale mutamento della prospettiva e delle proporzioni dovuto alle ottiche pone già la visione fotografica davanti a delle scelte di immagini non visibili dall’occhio umano, che esplodono con il grandangolo alla ricerca di un significato mediato o implodono con il teleobiettivo nel frammento elevato a sineddoche di tutto un mondo.
La scelta della luce, con le possibili sovra o sottoesposizioni, determina la connotazione dell’immagine fotografica condizionandone il significato. La scelta della coppia tempo/diaframma gli consente di modulare gli effetti di mosso e la qualità dello sfocato presente nella composizione.
Il punto di ripresa è un elemento determinate nel rapporto col soggetto e nella scelta della composizione. Proprio nella scelta del punto di ripresa riscontriamo la maggior dinamica operativa dell’autore, ad esempio quando compie la scelta originale di inquadrare il soggetto in modo indiretto attraverso un oggetto riflettente o trasparente presente nella realtà.
Allora ci mostra immagini del reale deformato dalle riflessioni, intravisto attraverso trasparenze sfocate, mutato nei colori dovuti alle qualità cromatiche delle superfici dalle quali egli raccoglie l’immagine simbolica di un mondo che fino a quel momento apparteneva solo a lui e nel rivelarcelo arricchisce il nostro patrimonio iconico.
Conclusioni.
Le fotografie di Ivano Bolondi hanno una forte valenza estetica nel significato originario del termine “Estetica” cioè di una conoscenza raggiunta con i sensi e non con la logica.
La sua visione si è negli anni arricchita delle iconografie assimilate nei cinque continenti; anche se affascinato dall’opera dei grandi fotografi italiani e esteri non ha mancato, con la sua vivace percezione, di cogliere il valore dei i segni dell’espressione umana: dal gusto artistico dei primitivi, a quello delle avanguardie.
Non ultimi anche i diversi fotografi sconosciuti, le cui fotografie ha visto casualmente esposte nei locali che accolgono il viandante in tutte le strade di provincia del mondo. Bolondi, per la sua storia, è un precursore della cultura della globalizzazione come oggi la intendiamo. In questo processo di dilatazione culturale che scavalca ogni genere di frontiera, la fotografia gli ha consentito di esercitare pienamente quel modello culturale della partecipazione che essa promuove per sua natura.
Non sarebbe immaginabile la sua imponente opera fotografica senza la fitta rete di relazioni umane che dal circolo di Montecchio dell’Emilia e dall’istruttivo e competitivo GAD si è irradiata in tantissimi circoli fotografici italiani e nei numerosi amici che egli ha sparsi nei cinque continenti. Il suo procedere nella attività fotografica è stato parallelo a quello della scoperta del mondo; a questo accrescimento di conoscenza umana egli ha risposto con un atteggiamento volto all’innovazione autentica della propria visione con esiti sorprendenti, non sempre facili da comprendere nel loro reale spessore artistico.
La sua etica, la saggezza, la moralità, la geniale creatività, che hanno le radici nella civiltà contadina padana sono ancora la sua pietra di paragone nel porsi di fronte alle realtà del mondo. Nonostante le ampie conoscenze acquisite, proprio in virtù di questa salda identità etnica, egli non ha perso la iniziale purezza del suo sguardo rivelatore che sempre si fonda sull’umiltà dell’uomo consapevole della difficoltà che c’è sempre nel comunicare agli altri ciò che solo lui ha vissuto tanto intensamente.




















