Vol. 36 – ERNESTO FANTOZZI- Autore dell’Anno 2002
- a cura di Giorgio Tani;
– 99 foto in bianco e nero
– interventi di: Silvano Bicocchi, Cinzia Busi Thompson, Cesare Colombo, Wanda Tucci Caselli
– cm. 22 x 23 – pagg. 96 – 2002
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Biografia
Ernesto Fantozzi è nato a Milano nel 1931, dove vive e lavora.
Inizia a fotografare nel 1958 aderendo subito al Circolo Fotografico Milanese, e nel 1962 riceve la nomina di AFIAP (Artiste del la Federatione Iternationale de l’Art Photographique).
Rinuncia presto al rituale dei concorsi ma si fa ugualmente luce partecipando a mostre personali e collettive.
Le sue foto sono subito connotate da un’inclinazione al reportage e la critica le cita con interesse.
All’inizio degli anni sessanta è tentato di abbandonare la sua attività nel settore edile per quella fotografica. Sarà poi invece tra i fondatori del “Gruppo 66” che raccoglieva alcuni fotografi non professionisti uniti dallo scopo di documentare fotograficamente la quotidianità della vita milanese.
Con l’esaurirsi dell’attività del gruppo (illustrata in un volume stampato dalla LEONARDO ARTE), verso la metà degli anni settanta, anche Ernesto Fantozzi sospende la sua pur cospicua produzione personale.
Tiene invece dei corsi e workshop di reportage per i soli del Circolo Fotografico Milanese.
Riprende a fotografare nel 1994 e nel 1998 dedica una lunga ricerca visiva poi pubblicata in un fotolibro agli ultimi artigiani argentieri di Milano, al lavoro nella gloriosa Galbiati. Poco dopo pubblica un volume che il CMAE (Club Milanese Automoto d’ Epoca) gli commissiona per illustrare i propri soci più attivi ed appassionati.
La sua attività fotografica si esplica naturalmente anche attraverso mostre personali e collettive, mentre le sue foto continuano ad essere pubblicate su fotolibri e riviste.
L’anima popolare di Milano.
Milano, dicembre 1947. Un’atmosfera nebbiosa nasconde i tramvai affollati che lentamente si muovono nel centro città, suonando i loro campanelli tra i cumuli di neve raccolti qua e là. Il freddo si fa visibile nel vapore del respiro delle persone che, pesantemente vestite, salgono e scendono dai tram animando le strade, le piazze, i caffè, in un clima sociale di grande speranza dopo le mortificazioni del periodo bellico. In una giornata come questa, in cui Milano rivela tutto il suo carattere di grande città del nord, il sedicenne Ernesto Fantozzi passeggia per il centro. Come ogni giovane è appassionato di sport e frequenta la grande edicola di piazza “5 Giornate”, nella quale si trovano anche le riviste di sport francesi. Ernesto sente fortemente il vissuto di cui l’immagine fotografica è testimone.
Nella vetrina dell’edicola lo colpisce la forza espressiva di una foto di pugilato. Questa rappresenta il momento di trionfo del pugile vittorioso che innalzato dai colleghi di squadra, allarga le braccia, mostra le mani avvolte nelle bende slacciate e col volto tumefatto esprime il sorriso dolorante del vincitore. Appassionato di ciclismo, pur non avendo conoscenze specifiche di fotogiornalismo, egli nota la differenza tra la fotografia delle riviste d’oltralpe rispetto a quelle italiane.
Nelle nostrane si curano solo gli aspetti agonistici dell’avvenimento sportivo, mentre in quelle francesi la fotografia allarga l’indagine alla vicenda umana dell’atleta e ai luoghi in cui la gara si svolge. In particolare lo colpisce una fotografia che mostra un concorrente che, durante il giro di Francia, si ferma per abbracciare la moglie ed il figlioletto mentre gli avversari di gara sfrecciano sulla strada.
È l’immagine fotografica che attrae inconsapevolmente Ernesto Fantozzi verso la fotografia.
Il fotografare, la fotocamera verrà molto più tardi.
Il vissuto
Ernesto Fantozzi nasce a Milano nel 1931 da Catullo Fantozzi e Albina Cabra. Egli vive a Milano; nell’infanzia e nella fanciullezza trascorre durante le vacanze estive lunghi periodi nella provincia della bassa bresciana, presso la numerosa famiglia dell’amica .della madre, Gesuina Ferri. Negli stessi luoghi trascorre gli anni della guerra 1942 – 1945, quando la propria famiglia sfolla da Milano.
L’ambiente umano in cui si forma il giovane Ernesto è duplice: quello metropolitano milanese e la provincia della bassa bresciana. Da una parte è stimolato dalle dinamiche sociali della metropoli e dall’altra dalla ricchezza di umanità della civiltà contadina e dal rapporto straordinario con l’ambiente naturale della campagna e degli animali.
La vita in provincia a quell’epoca è caratterizzata da esistenze condivise nelle strada, nelle piazze, nelle osterie, nelle ampie cascine. Tutti si conoscono tra loro e intrecciano le esistenze in una visibilità pubblica. In questo ampio e spontaneo relazionare, non distratto da consumismo e televisione, le qualità umane hanno un ruolo centrale. Il periodo bellico, vissuto durante l’adolescenza, è per Ernesto Fantozzi un momento di grande importanza nella formazione umana e civile. Vive da vicino le vicende locali della resistenza all’occupazione tedesca e della liberazione con l’arrivo dei soldati americani.
Qui incontra il primo uomo di colore che, con al collo uno sgargiante foulard giallo, comanda una pattuglia di soldati alleati. Con gli occhi del ragazzo vede anche le tragiche conseguenze dei combattimenti. È qui che scopre il fascino della persona comune che nell’esprimersi nel proprio ambiente diventa un personaggio che caratterizza il tono delle relazioni umane.
La capacità di vedere l’identità umana appresa nella vita popolare della provincia gli servirà nel rivelare il meno visibile modo di vivere dei milanesi.
L’incontro con la fotografia e i fotografi
Nel dopoguerra compie gli studi da geometra e poi lavora nel settore edilizio sviluppando negli anni diverse attività. Interessato alla fotografia visita la mostra di H.C. Bresson sull’India e l’ammirazione per questo autore lo spinge ad acquistare il primo importante libro fotografico.
È la moglie Edda Majocchi, allora sua fidanzata, che nel 1957, gli regala la prima fotocamera, una KodaK Retinette. Iniziando l’esercizio della fotografia sente la necessità di conoscere di più le possibilità del mezzo e nel 1958 entra nel C.F. Milanese. In quest’ambito inizia il suo percorso di formazione incontrando tanti fotoamatori che poi diventeranno importanti fotografi come G. B. Gardin, Merisio, Finocchiaro, Bruno, e tanti altri. Dopo la Rolleiflex, consigliata dal circolo, sceglie la Leica nel 1961, perché meno appariscente e più maneggevole per il genere di fotografia che vuole esercitare.
Ernesto Fantozzi è un giovane con le idee chiare verso quale genere dì fotografia sviluppare la propria attività, egli si sente pienamente coinvolto nella poetica Realista. Anche sotto l’influenza del cinema neorealista di Visconti e Rossellini, vuole allontanarsi dall’immagine retorica del mondo, dall’estetismo fine a se stesso, dalla fotografia falsa ma di effetto. Quindi il trentenne Ernesto Fantozzi inizia a percorrere una strada nuova, per il suo ambiente, alla ricerca della sua fotografia: quella adatta a rappresentare il mondo e la gente che lui ama. Sono anni di maturazione e di importanti incontri in una Milano in grande fermento attorno alla fotografia.
Nel C.F. Milanese, in particolare si sente compreso da Gualtiero Castagnola. Nel confronto con gli altri fotografi in lui inizia un conflitto interiore nel cercare nuove estetiche che consentano un rapporto di autenticità tra la fotografia e la realtà. Partecipa raramente ai concorsi fotografici e viene insignito dell’onorificenza AFIAP. E’ tra i fondatori, nel 1965, del “Gruppo ’66” che promuove un progetto pianificato di fotografia realista, articolato sul territorio milanese. Conosce profondamente Pietro Donzelli che gli pubblica su “Popular Photography”, nella rubrica “Occhio Nuovo”, nel 1963 un reportage sul “Ciclismo amatoriale” e nel 1965 “Il Paese industriale”.
Incontra Paolo Monti traendone importanti motivazioni sulla fotografia come documento. Dopo l’intensa stagione iniziata nel 1958, interrompe l’attività di ripresa a metà degli anni 70 per crisi creativa, restando nell’ambiente anche come docente, per poi riprendere nel 1994 con grande vigore.
La tematica
Fin dal primo momento la sua ricerca fotografica è monotematica. Vuole rappresentare la vita della società milanese, colta negli avvenimenti ordinari che non interessano al fotografo professionista perché della realtà coglie invece solo lo straordinario che può vendere ai rotocalchi. I temi delle proprie ricerche sono esempio: Il Ciclismo della passione, Paesaggi milanesi, Corso Buenos Aires, Stadio di San Siro, Il paese industriale, Il vecchio Ortomercato, Inaugurazione del quartiere di S. Ambrogio, Grandi Magazzini, Parco Lambro, ecc….
Una tematica che non è sentita nemmeno in gran parte dell’ambiente amatoriale che, negli anni 50′ e 60′, o è orientato alla ricerca Formale oppure se Realista rivolge la propria attenzione al meridione di Italia e successivamente verso i paesi esotici. Egli persegue un genere fotografico appartenente all’ampio tema della “Fotografia Popolare” che sviluppa tendendo al documento e contemporaneamente all’espressione della propria visione soggettiva.
È un genere di fotografia che paga a lungo termine, per l’aura particolare che l’immagine fotografica acquisisce nel rappresentare il passato e consentirci di rivisitarlo col “senno di poi”. L’essere raramente apprezzati dai contemporanei, richiede notevole consapevolezza e lungimiranza, da parte del fotografo, per riuscire ad operare in una gran solitudine. Ernesto Fantozzi è consapevole che l’immagine fotografica gli consente di portare alla coscienza dei significati irraggiungibili dalla nostra percezione visiva. Infatti la percezione umana è capace di vedere solo insiemi nella dinamica dell’avvenimento, e non ha il tempo di leggere i dettagli.
Animato da un profondo sentimento d’appartenenza alla propria gente ed alla propria terra, motivato da una forte empatia verso i propri soggetti egli scava nella realtà quotidiana dell’ovvio, dimostrando quanto mistero c’è nell’ovvietà.
La poetica
L’opera di Ernesto Fantozzi arricchisce il grande patrimonio poetico del Realismo Fotografico Italiano.
La sua fotografia vuole essere un documento fedele alla realtà e contemporaneamente espressione della propria soggettività, per far emergere i valori a lui cari che sono presenti nella realtà stessa.
In tutta la sua opera è immanente il messaggio del mutamento continuo dell’ambiente urbano e dello stile di vita delle persone che sono sospinte dall’onda della modernità. Egli rivolge la sua attenzione ai paesaggi urbani ed alla vita sociale della metropoli milanese.
I paesaggi sono spesso caratterizzati dalla contemporanea presenza dei segni dell’attualità nascente e del passato ormai giunto al tramonto. Le fotografie comunicano al lettore un tempo sospeso in cui anche il luogo più umile viene rappresentato con solennità. Da queste immagini esce chiara l’idea che egli ha della sua Milano: una città del nord che mostra la sua vera identità con l’inverno, nelle atmosfere create dall’umidità, la nebbia, la neve. Nel rapporto con la gente, rifiutando la messa in posa, coglie la spontaneità del gesto e l’espressione del volto che ignora d’essere fotografato.
In tal modo le persone diventano il personaggio di se stesse, secondo l’opinione che l’autore ha di loro. Sente all’interno della scena la viva relazione fra le persone e le cose, ed aspetta il momento decisivo in cui si compone l’assetto che è segno del proprio sentimento.
Ne escono immagini della realtà colta nei momenti più vari. Un repertorio articolato di esistenze che si presenta sempre ricco di elementi di casualità.
La casualità è la sua grande ispiratrice, una compagna che però chiede una particolare rapidità nel vedere, intuire e scattare la foto.
In questo modo nascono immagini in cui gli equilibri formali, il peso dei diversi elementi che interagiscono nella composizione sono scelti rapidamente d’istinto.
Per questo la visione di Ernesto Fantozzi sollecita la nostra percezione con estetiche sconosciute che sanno dominare anche i classici elementi di disturbo, come i pali elettrici. Sono immagini che contengono due rivelazioni: una l’intuizione del fotografo, l’altra l’inconscio ottico della registrazione automatica della macchina fotografica.
Certo l’autore è attratto da alcuni elementi significanti, ma, mentre l’obiettivo porta sulla pellicola anche il più piccolo dettaglio, egli non può controllare ogni elemento che compone la scena. Sono immagini che hanno la stessa natura della realtà, cioè quella di essere sorprendenti, imprevedibili e sempre un po’ misteriose. Lo scoprire questo mistero che appare solo nell’immagine fotografica è il fascino che alimenta la passione dell’autore. Questo è l’ideale di fotografia in cui crede Ernesto Fantozzi. In cuor suo ammira l’opera di H.C. Bresson, per il talento nel scegliere il momento decisivo del reale che ha la forma capace di comunicare, ma ama quella di Robert Capa per il suo realismo senza quelle forzature estetizzanti che allontanano la foto dalla natura di documento.
È in questo processo di trasformazione della realtà nella propria immagine fotografica in bianco e nero che l’autore vive il forte conflitto interiore che lo pone nell’inquietante ricerca di un rapporto tra forma e documento che consenta la comunicazione senza tradire la realtà. Conflitto non facilmente risolvibile perché non può avere la stessa soluzione formale in ogni situazione, ma ciascuna realtà richiede una soluzione diversa pur restando coerente allo stile del fotografo.
Il processo creativo
Ernesto Fantozzi inizia a fotografare dopo aver lungamente esercitato la lettura dell’immagine fotografica. Quindi la sua passione è per la foto non per la fotocamera o la perfezione tecnica che considera solo degli indispensabili strumenti. Egli sente la necessità interiore di documentare il mondo popolare che ama, in una Milano che è il simbolo nazionale della modernizzazione e quindi il luogo in cui la tradizione e l’innovazione convivono, producendo scenari che mutano rapidamente.
Il suo vissuto ha formato in lui l’uomo che sa vedere sia i segni del passato che quelli dell’attualità. Nel suo animo il rapporto con queste due componenti non è conflittuale, egli sa comprendere l’una e l’altra.
Caricato il rullino sulla Leica M, dotata normalmente del 35 mm, la porta al collo in posizione molto alta perché possa giungere all’occhio nel tempo più breve possibile. Egli predilige la fotocamera a telemetro che prepara prima dello scatto, sia nella messa fuoco che nei parametri d’esposizione. Intravista la scena, mosso dall’urgenza espressiva, inquadra con gli occhi senza portare la fotocamera al volto. Egli entra in sincronia con la dinamica del momento e solo quando intuisce il comporsi espressivo delle varie componenti, con un gesto fulmineo porta all’occhio la macchina e scatta. In quel gesto i suoi occhi non abbandonano mai la scena e se vede il momento significante compiersi prima di inquadrare egli istintivamente scatta.
Con l’esperienza ha imparato da tempo a scattare “à la sauvette”, cioè nascostamente senza portare la fotocamera all’occhio. Raramente il soggetto si accorge di essere stato fotografato. Di sicuro si è meravigliato invece di quei suoi occhi che stranamente lo hanno scrutato con intensità. Egli prova un’emozione fortissima nel fotografare in questo modo la realtà. E’ cosciente di aver incontrato il suo soggetto nell’intimità del vissuto ed aver ripreso ciò che di autentico e fresco era nei propri occhi.
Una volta che Ernesto Fantozzi è sulla scena del reale è l’intrigante casualità a comporre la fotografia, nell’offrire presenze e avvenimenti. Il talento del fotografo sta nell’essere aperto alla novità e rapido nel coglierla. Egli conosce la generosità che la casualità offre a chi l’ama. Dopo in camera oscura, ansiosamente scrutando nei negativi, farà il bilancio di quanto raccolto e quanto perduto. Il perduto è un’emozione amara da lui provata molte volte. Comunque anche questa è un’esperienza non inutile perché muove il rispetto verso l’autonomia del soggetto e dimostra la difficoltà di questo modo di fotografare.
Conclusioni
La fotografia ci consente di conoscere la realtà. Ma ognuno di noi avverte nella realtà diversi aspetti, con differenti sensibilità e l’immagine fotografica nella sua denotazione e connotazione raccoglie queste infinite forme di vedere il reale. La realtà rimane, nella memoria, nelle sembianze in cui il fotografo sa rappresentarla. Quindi nelle fotografie comunichiamo inevitabilmente una visione soggettiva delle cose. E l’oggettività della realtà dove è andata a finire? L’oggettività è solo la superficie del reale. L’oggettività senza la poetica dell’uomo che la interpreta è un contenitore vuoto. Come dire che il mondo senza uomini che lo sanno animare è come una stanza buia. Ma appena accendiamo una luce per guardare l’oggettività, abbiamo già iniziato un processo di interpretazione; appunto guardiamo le cose da una certa luce.
Possiamo dire che la fotografia di Ernesto Fantozzi, nella sua difficile realizzazione, è semplicemente la riproduzione di alcuni flash del suo sguardo. La sua visione istintiva, ricca di umanità, sa comprendere profondamente la realtà. Il bianco e nero di qualità, da lui stampato, conferisce alle fotografie una capacità di comunicare fortemente autonoma dal reale. Questa conquistata autoreferenzialità dell’immagine fotografica ci consente di vedere come Ernesto Fantozzi sente il suo mondo, il quale alla sua presenza non si è compiuto invano.




















